di Roberta Pedrotti
Michele Mariotti dirige il suo primo concerto sinfonico in qualità di direttore musicale del Teatro Comunale di Bologna in un programma che sembra cucito su misura per sintetizzarne e delinearne qualità e personalità.
BOLOGNA 29 marzo 2015 - Michele Mariotti non ha certo bisogno di presentazioni, soprattutto a Bologna, dove ha debuttato nel 2007 con L'italiana in Algeri inaugurando quella che sarebbe stata un'intensissima collaborazione con il Teatro Comunale, culminata nella nomina a direttore principale e, oggi, a direttore musicale. E questo, il suo primo concerto felsineo in tale veste, è parso proprio come una sorta di biglietto da visita e di sunto delle qualità e della personalità del maestro.
Apre la serata l'Ouverture dalle musiche di scena di Die Zauberharfe di Schubert, brano perfetto per giocare le carte migliori di Mariotti e la sua particolare sensibilità per il repertorio del primo Ottocento, reso con elegante senso teatrale, cura del dettaglio, dei pesi e dei colori, fraseggio e analitisi e filologicamente coerenti nel rendere il romanticismo insito in un linguaggio che discende da quello mozartiano ed è affine a quello belcantista, un linguaggio lieve e sofisticato nel quale la profondità emerge da sé senza bisogno d'inutili sottolineature.
Seguono i Vier Letzte Lieder, testamento musicale di Strauss, nel quale Mariotti può esprimere al meglio la sua sensibilità al canto, la sua propensione per l'elegia, per sonorità levigate con ben calibrate trasparenze, la capacità di cogliere la specificità di atmosfere novecentesche neoclassiche e non solo. L'orchestra, come in Schubert, lo segue con efficacia, mentre il soprano Maria Katzarava mostra buon temperamento musicale. Tuttavia, non ci si può esimere dal consigliare alla giovane georgiano-messicana una maggiore attenzione all'appoggio e alla gestione del fiato: è evidente che la natura è stata generosa con lei, la voce è bella e personale, ma un vibrato dispettoso soprattutto ci ricorda come perfezionando la respirazione potrebbe guadagnare in proiezione in tutti i registri, in morbidezza, duttilità, solidità.
Dopo l'intervallo, e dopo gli sviluppi del classicismo viennese al tempo del Belcanto e il canto vero e proprio della poesia straussiana, Mariotti si cimenta con la monumentalità di una grande partitura tout court sinfonica, la Seconda Sinfonia di Brahms. L'approccio è ancora una volta coerente: si cerca la leggerezza, si vuole sottolineare la continuità con la tradizione di Schubert e, soprattutto, Beethoven filologicamente intesi senza appesantimenti tardoromantici. Appare altrettanto evidente che il modello di Mariotti non è quello del direttore autoritario, del demiurgo del podio; condivide, bensì, l'ideale di Abbado del fare musica insieme, con un approccio cameristico, nel metodo, ovviamente, più che necessariamente nello stile. Al di là della caratura divina del direttore stesso, gli amici con i quali Abbado condivideva questo principio erano, però, per lo più selezionati fra i più grandi musicisti del mondo, o giovani inseriti in un percorso formativo intenso e d'altissimo profilo. L'orchestra del Comunale di Bologna, per quanto capace anche di performance significative, non è una superorchestra; i risultati migliori, specie in ristrettezze di prove, li offre mediamente con le bacchette più severe. Il debutto nella Seconda di Brahms, per un direttore che, per di più, sta affrontando un cammino di avvicinamento a questo repertorio ma non lo mastica quotidianamente, avrebbe avuto probabilmente bisogno di un tempo di preparazione maggiore per essere pienamente metabolizzato da un'orchestra cui non si vuole imporre ma con cui si ambisce a costruire, anche e soprattutto al fine di rendere più mordenti e incisive le intenzioni. La cultura musicale di Mariotti è evidente, evidente come ricerchi una sua lettura coerente e personale, ma altrettanto evidente come i risultati migliori si siano potuti gustare appieno nella prima parte, con Schubert e Strauss, autori pagine e stili ben congeniali al concertatore e ben recepiti dall'orchestra. Dell'interpretazione di Brahms sono gettate le basi, ma l'idea deve ancora imporsi – se su o con gli strumentisti è sfumatura di metodo che non riguarda l'esito –, svilupparsi, trovare quella forza e quel respiro che dall'analisi proceda alla sintesi compiuta. Vogliamo sentire, insomma, anche questo Brahms leggero, alla Mariotti, vedere al primo schizzo assumere contorni definiti, pronto a convincerci o a farci discutere. Per ora cogliamo l'idea, ma non una costanza di tensione o una disivolta piena confidenza con l'autore che vada al di là dello studio anche accurato e intelligente. E anche l'orchestra pare meno puntuale e più rilassata, con, in particolare, un solo piuttosto problematico del corno nel primo movimento.
Un biglietto da visita completo e sfaccettato, che ci racconta un talento colto e idealista a confronto con la realtà di un'orchestra che ha bisogno sì di un amico, ma anche di un leader all'occorrenza inflessibile (difficile immaginare Mariotti in una sfuriata alla Toscanini, ma ci sono molti modi per esprimere autorità). Ci racconta un interprete sensibile ed elegante della poesia del canto e del belcanto, del classicismo e del primo romanticismo, un interprete che fuori dalle sue evidenti affinità elettive esplora il grande sinfonismo tedesco alla ricerca di nuovi stimoli e traguardi che attendono ancora una forma piena e compiuta.
Il pubblico è ben più folto di quanto avvenga mediamente per i concerti sinfonici nei fine settimana, segno tangibile dell'affetto e dell'interesse dei bolognesi nei confronti di Mariotti; il successo assai vivace.