Alla ricerca di Isabella
di Roberta Pedrotti
Due compagnie non proprio all'altezza del cimento e una messa in scena che si sforza - invano - d'esser spiritosa più che di servire testo e musica penalizzano l'appuntamento annuale con il progetto Opera Next al Comunale di Bologna. C'è, però, anche il rovescio della medaglia costituito dall'interessantissimo giovane direttore Nikolas Nägele.
BOLOGNA, 9 e 10 luglio 2019 - “Di coraggio è tempo adesso, or chi sono si vedrà.” promette Isabella, ma a dire il vero al Comunale di Bologna, in quest'occasione, della “bella italiana” che “insegna agli amanti gelosi ed alteri che a tutti se vuole la donna la fa” non abbiamo trovato molte tracce. Forse per inseguire l'ideale della follia completa e organizzata, la regista Giorgia Guerra si perde, infatti, in mille gag che presumibilmente vorrebbero essere spiritose, ma di certo non sono ben organizzate. Lindoro e Mustafà con bastone e cilindro improvvisano nel loro duetto un numero sulla falsariga di quello di Gene Wilder e Peter Boyle, alias Frederick von Frankenstein e la Creatura; corsari ed eunuchi inneggiano al Bey disegnandone il nome, in modo invero un po' maldestro, con i loro corpi, poi ballano il can can per festeggiare il Kaimakan Taddeo; il finale primo è un concerto rock, la stretta del quintetto del secondo atto una seduta di elettroshock (pratica che notoriamente ispira risate e simpatia); Mustafà-Pappataci diventa pizzaiolo e via di questo passo, fra il già visto e lo sconclusionato che si ammucchiano generando, infine, solo noia. Sembra che per la regista conti di più la singola immagine dello sviluppo teatrale della vicenda: così Isabella appare a bordo di una Vespa in panne che gli uomini algerini tentano invano di riparare, finché la stessa non prende in mano la situazione concludendo la cavatina nella posa iconica del manifesto We can do it di Howard Miller. Al riferimento visivo, però si sacrifica la situazione e non si capisce perché diavolo il corsari debbano voler riparare il mezzo di trasporto dei potenziali prigionieri, né tantomeno, se Isabella risolve il problema, come rimanga schiava. Schiava, poi, è supposizione che può fare solo chi conosca bene il libretto, ché i presonaggi son così poco caratterizzati da far pensare, al massimo, a breve soggiorno offerto ai due italiani nelle strutture dell'Hammam Algeri, che ha fra i suoi frequentatori anche un ricco signore locale desideroso di avventure piccanti. Ma se Mustafà è fin dall'inizio un insulso babbeo, dove starebbe il merito di Isabella che lo muta “di leone in asino”? Se non possiamo condividere lo stupore di Elvira, Zulma e Haly “Uno stupido, uno stolto diventato è Mustafà […] l'italiana è franca e scaltra” tutta la vicenda perde di forza, perde di senso. Mustafà deve apparire terribile, autoritario, Isabella dev'essere l'unica a sfidarlo e a ribaltare la situazione in favore delle donne. Nulla di tutto ciò nello spettacolo di Guerra, che avvilendo il Bey avvilisce anche Isabella (d'altra parte, se anche Taddeo flirta subito con Zulma, l'ascendente della “bella italiana” dev'essere davvero minimo). Difficile, così, anche immaginare un “Per lui che adoro” meno sensuale, meno erotico, più rinunciatario, giacché l'Isabella del primo cast, Maria Ostroukhova, ha un bel viso e fa intuire un buon potenziale di spirito e disinvoltura, ma è di forme generose e rotondette che la regista sembra timorosa di valorizzare, riducendo in modo quasi penitenzale la sua toilette; viceversa Vittoria Vimercati, la sera successiva, è sottile sottile e quindi ci si può accontentare di lasciarla in guepière per illudersi d'aver reso l'erotismo della scena. Peggio ancora l'appiattimento della raffinatissima costruzione oratoria di “Pensa alla patria”, che dovrebbe essere un vero e proprio comizio in cui Isabella coinvolge ed elettrizza il gruppo degli schiavi facendoli sentire “esempi d'ardire e di valor”, additando simbolicamente nello “schiavo gentil” il timore da abbandonare, in Taddeo la sciocca incredulità da rigettare. Il discorso si chiude con l'entusiastica risposta del coro “Dove a te par ci guida […] L'ardir trionferà”, mentre la stretta “Qual piacer, fra pochi istanti” è la personale soddisfazione per il risultato condita dal pensiero privatissimo verso quell'amore che Isabella non rende mai pubblico fino alle ultimissime battute dell'opera (si badi bene: fino a quel “Andiam, mio tesoro. - Son teco, Lindoro” lei in presenza d'altri lo tratta sempre con distacco e lo apostrofa come schiavo). Invece secondo Giorgia Guerra proprio “Nel periglio del mio bene coraggiosa amor mi fa” è uno slogan elettorale lanciato dal microfono alla folla armata di cartelli e striscioni: una visione che non riesce a convincere e sembra l'ennesima banalizzazione senza capo né coda, né cifra estetica di qualche pregio. Se L'italiana in Algeri è un capolavoro non è certo perché può far da sfondo a una serie di trovate sceniche, ma perché testo e musica costruiscono una commedia perfetta, perché la follia è organizzata.
In tale contesto scenico, non può stupire la difficoltà del cast nel creare personaggi credibili, nello sviluppare l'azione rendendo giustizia a Rossini e Anelli. Son tutti giovani, selezionati per il progetto Opera Next attivo già da anni in collaborazione fra la Scuola dell'Opera del Comunale e l'Opera (e)studio di Tenerife. Il progetto di per sé è benemerito, ma, vuoi per i problemi registici vuoi per l'oggettiva difficoltà dell'opera, quest'anno sembra proprio che si sia fatto il passo più lungo della gamba. Di fatto, fra i due cast, resta poco di positivo da registrare, forse solo il Taddeo di Pablo Galvez (10 luglio), che quantomeno dimostra di saper proiettare la voce e di voler dar senso a quel che dice. Il collega Gianni Giuga (9 luglio) sembra viceversa troppo debole vocalmente e musicalmente per offrire una caratterizzazione del personaggio. Maria Ostroukhova (Isabella 9 luglio) ha anche delle belle colorature, ma non sostiene bene il fiato, con il risultato di stancarsi presto e di risultare sovente calante; Vittoria Vimercati (Isabella 10 luglio) ha vocina piccola e sorda, udibile più che altro negli acuti, che però risultano un po' avventurosi. Milos Bulajic (Lindoro, 9 luglio) esibisce una tecnica non trascendentale, ma strutturata, conduce in porto la sua recita con sostanziale correttezza e generale inerzia espressiva; Li Biao (Lindoro, 10 luglio) ha una vocalità di natura più brillante e un pizzico di spirito in più, almeno nelle intenzioni: peccato per i troppi pasticci nella sua cavatina. Matias Moncasa Albarran (9 luglio) è un Mustafà oltremodo sciocchino che condivide impacci virtuosistici con Aleksandr Utkin (10 luglio), meno insignificante sulla scena in virtù della stazza più che della recitazione, benché i problemi di dizione e l'emissione ingolata non siano trascurabili. Entrambi non si può dire abbiano in tasca il Sol del giuramento dei Pappataci, il primo svicola con una - l'ennesima - gag, il secondo ci prova. Non si capisce bene perché, nei panni di Elvira, Inés Lorans Millan (9 luglio) e Anna Kabrera Eliseeva (10 luglio) debbano così spesso strisciare e camminare gattoni, ma con le loro vocine infilano comunque i Do richiesti. Nemmeno si capisce bene chi sia Haly (titolare dell'Hammam, factotum di Mustafà, capo dei corsari, un tizio di passaggio?) se non che alla fine, sedotto da un paio di guanti trovati nel bagaglio di Isabella, si scopre omosessuale: nella parte si alternano decorosamente Francesco Samuele Venuti (9 luglio) ed Esteban Sebastian Baltazar (10 luglio). Per entrambe le recite, Zulma è Sophie Burns.
Il coro del Comunale si disimpegna con l'abituale disinvoltura e l'orchestra si distingue per precisione e compattezza. Qualcosa di buono, infatti, in queste due recite c'è, ed è il trentaduenne Nikolas Nägele sul podio. Il tedesco, che ritroveremo a Pesaro per Il viaggio a Reims dei giovani nel Rof 2019, ha già un bel curriculum: kappellmeister alla Deutsche Oper di Berlino, assistente di Christian Thielemann fra Bayreuth e Salisburgo e, per quell'opera immensa e complessa c'è il Lear di Reimann, di Fabio Luisi a Firenze. Le premesse ci sono tutte, sul podio conferma di sapere il fatto suo e fa emergere dalla buca un bel suono ben controllato; fra le due recite dimostra anche di adeguarsi alle esigenze del palco (con Utkin l'invettiva “Andate alla malora. Non sono un babbuino” è sensibilmente più lenta), pur senza rinunciare ad articolazioni interessanti, come l'atmosfera acquea e straniante del tempo lento del finale primo “Oh ciel! Che miro!”. La confidenza con le sfumature del crescendo e con la cantabilità italiana potrà affinarsi, ma, certo, si tratta di una bacchetta di qualità e dell'autentica stella della produzione, un giovane musicista che rimaniamo curiosi di incontrare nuovamente in teatro e in sala da concerto.
Alla prima, complice la data ormai vacanziera, il pubblico non si può dire che s'affolli in sala e riserva gli applausi, generosi, per lo più alle uscite finali. Alla seconda la partecipazione è più numerosa, la generosità finale davvero sorprendente. Davvero basta esser giovani per essere premiati (magari anche illusi) anche quando non si è all'altezza del cimento? Davvero bastano un po' di buffonerie per illudere di aver rappresentato lo spirito rossiniano?
il cast del 9 luglio, foto Andrea Ranzi, studio Casaluci
il cast del 10 luglio, foto Andrea Ranzi, studio Casaluci