Minerva e Mercurio
di Mario Tedeschi Turco
Non si può chiedere di meglio dopo il recital veronese di Lucas Debargue, che coniuga un rigoroso taglio analitico musicologico con il duende mercuriale della libertà artistica, fra Bach e Schumann, Fauré e Skrjabin.
VERONA 27 settembre 2021 - Artista di taglio analitico-musicologico nel concetto dei programmi concertistici e discografici; strumentista in grado di lasciarsi trasportare in un fraseggio sovranamente libero, animato da un duende di mercuriale, indicibile mutevolezza nei timbri e nei colori: non è facile ridurre in formula la statura di un pianista come Lucas Debargue, ascoltato in recital al sesto appuntamento del “Settembre dell’Accademia” al Filarmonico di Verona. Ma vorremmo principiare dal primo aspetto annotato, quello relativo al pensiero musicale che presiede alla scelta dei brani. Serata divisa in due parti: nella prima, Concerto italiano di Bach e Sonata n. 3 di Schumann; nella seconda, eseguiti senza pause tra un brano e l’altro, Fauré, Barcarola n. 3; Skrjabin, Sonata n. 4; ancora Fauré, Ballata, op. 19; ancora Skrjabin, Fantasia,op. 28. La sequenza dei brani è già vettore di senso, la forma e l’architettura sonora nei tempi successivi essendo protagoniste nei dettagli strutturali: lo Schumann che eredita il contrappuntismo pur nel canto di Bach; il sovrapporsi dei piani sonori nella stratificazione delle voci, con ricorso a temi-guida o incisi ricorsivi rilevati nel binomio Fauré-Skrjabin, il flusso musicale ininterrotto, quale scelta esecutiva, a sottolineare l’analogia di entrambi nel profilo costruttivo ma, ancor di più, nel gesto poetico che tende all’altrove, in una dimensione di produttività testuale che incrocia le opere diverse in una medesima aura espressiva.
Come ha suonato il Bach di Debargue? In linea con il suo notevolissimo Scarlatti discografico del 2019, in cui il nitore delle linee si staglia su una libertà di scansione agogica la quale, lungi dall’essere arbitraria, propone tuttavia minimi scarti, accenni infinitesimali di rubato, le due mani sempre in severa complessione ritmica omogenea. Nell’Adagio, le indicazioni bachiane di forte e piano rispettivamente per la melodia e il basso sono state osservate senza per questo obliterare la pulsazione armonica; nel Finale, costruttivismo tedesco e istinto canoro italiano hanno celebrato con misurato entusiasmo la fusione degli stili, con proprietà storica (quella permessa da uno strumento pur sempre tardo ottocentesco, s’intende), gioco digitale perfetto, qualche pedalizzazione di risonanza ben dosata, necessaria per la vastità della sala. Nessun macchinismo, dunque, nessun tentativo assurdo di ricreazione del suono clavicembalistico: se pianoforte dev’essere, che lo sia fino in fondo sfruttando con parsimonia le risorse dello strumento diverso.
Lo Schumann “sinfonico” dell’op. 14, nelle mani di Debargue ha mostrato al meglio il gran gesto romantico che ne fonda l’impianto. Le sonorità si sono fatte grandiose, la varietà incredibile delle dinamiche messe in forma dal pianista hanno costruito un monumento perfettamente coerente con l’intenzionalità sonora pensata dal compositore. Stupefacente la capacità di Debargue di pesare in modo sempre differenziato le frasi, le semifrasi, gli incisi, le variazioni di carattere, spesso le singole note all’interno dei motivi: e la tavolozza timbrica estratta dal cromatismo schumanniano, con le sue dissonanze montate sulle sincopi e le conseguenti ambiguità armoniche, è stata proposta con un virtuosismo e un impeto in sé stupefacenti, ma di più – ecco ancora il pianista/musicologo – hanno aperto alle non dissimili soluzioni di Fauré, proposte nella seconda parte del concerto.
Fauré e Skrjabin come artisti dell’articolazione sintetica negli strati sonori sovrapposti: lo si accennava prima, questa è la chiave interpretativa offerta da Debargue. Profonda nell’idea, magistrale nell’esecuzione, di tensione spasmodica nel continuum perché di linee di tensione analogica, tra i due compositori, il pianista ha voluto parlarci. Che Fauré sia un maestro assoluto nel comporre il testo pianistico secondo il collegamento simultaneo di spazi sonori in frammento l’ha dimostrato meglio di altri Jean-François Nectoux, alla cui monografia su Fauré rimandiamo per i dettagli. Quel che preme qui sottolineare è il modo in cui Debargue ha reso incandescente materia sonora quella scrittura: ancora con la libertà nel fraseggio, ancora con una fantasia ardita nel dosare il tocco dinamico e il pedale, così che il cantabile della Terza Barcarola, per esempio, è divenuto un ondeggiamento ora soave, ora drammatico, sempre estremamente morbido e continuamente cangiante. In questo senso, il legame con la Fantasia di Skrjabin è stato illuminante, nell’esecuzione ugualmente torrenziale degli arpeggi larghissimi, nonché di una certa enfasi giustamente non elusa da Debargue, ma anzi reclamata gonfiando la sonorità fino agli estremi possibili dello strumento: non era eccesso, era Skrjabin nella scrittura e nella tensione superomistica sua tipica, ugualmente restituita dal pianista francese nella Sonata n. 4, sogno o delirio in un mondo smaterializzato, dove forse solo il ritorno tematico dell’incipit – evidenziato dall’interprete con minimo ma perfettamente avvertibile sbalzo in rilievo, come innescato ogni volta da una molla invisibile – rimane quale garante di un ordine classico ormai in via di completo disfacimento.
Con Debargue, insomma, la trascendentale competenza tecnica diviene discorso sulla musica, pensiero sull’estetica, estroversione totale in abbandono, canto, spazio e tempo rivissuti nel corpo sonoro dello strumento, immersione totale nella musica a trovarne linee di tensione comuni in testi di autori diversi. Di meglio non si può chiedere.