Virtuosismo e poesia
di Antonino Trotta
In un breve tour lombardo che tocca il Teatro Ponchielli di Cremona e il Teatro Sociale di Como, Alessandro Bonato guida l’Orchestra Filarmonica Marchigiana verso un trionfo: prima di una sorprendente Settimadi Beethoven, Stefan Milenkovich si lascia ammirare nel concerto per violino di Čajkovskij.
Como, 9 aprile 2022 – Quando una serata di musica sinfonica verte in toto su di un programma celeberrimo, da teatro generalmente o si esce delusi o si esce estasiati, tertium non datur. Si pensi alla Settima di Beethoven o al concerto per violino di Čajkovskij: lo spettatore occasionale li avrà ascoltati almeno una volta nella vita, l’uditore incallito avrà dedicato loro intense giornate di onanismo musicale, persino chi in platea non ci ha messo mai piedi avrà sedimentati in un angolo recondito della memoria, grazie a magnifici film d’autore o pannolini che promettono di assorbire l’impossibile, quei temi che insieme al resto corroborano il successo delle opere in questione. Il confronto con le incisioni di riferimento, personali e mai assolute, è dunque inevitabile, ed è proprio l’esito di questo confronto ad accendere poi uno dei due stati d’animo a cui prima s’accennava. Al Teatro Sociale di Como, dopo il concerto di Alessandro Bonato alla guida dell’Orchestra Filarmonica Marchigiana, siamo molti fortunati: la lampadina dell’entusiasmo s’illumina con una potenza tale da rischiare di fulminarsi perché anche l’ennesimo ascolto sa concedere il preziosissimo lusso della scoperta.
Una scoperta, in tal senso, è ad esempio il concerto in re maggiore per violino e orchestra op. 35, pezzo da battaglia per ammiccanti virtuosi, troppo spesso letto come altare su cui offrire in sacrificio al solista una scrittura orchestrale di eccezionale fattura. Non è questo il caso, e sono sufficienti le prime battute dell’Allegro moderato iniziale per rendersene conto: la sola progressione orchestrale che introduce la cadenza d’ingresso del violino, articolata in un indefesso gioco di crescendo e accenti, ammalia i timpani e rapisce l’attenzione, e per la sensazione di trepidante attesa che sa destare nell’ascoltatore – azzeccatissima poiché prepara il pubblico al contrasto col primo tema del violino, arioso e languido sui pizzicati degli archi distillati a regola d’arte –, e per la finezza con cui il discorso stesso è condotto. Finezza che poi è ricchezza di dinamiche, forbitezza di fraseggio, genialità nella lettura del testo governato da un raro senso della misura, quindi capacità assoluta di restituire al lirismo la vigoria propria del romanticismo russo, una coinvolgente forza espressiva, depurato com’è dalle facili e deleterie melensaggini che solitamente appesantiscono il tutto e rendono Čajkovskij tutto fronzoli e poca sostanza. Del resto tale è l’affiatamento coi suoi complessi che a Bonato basta appena un cenno di dita per suggerire e ottenere dalla FORM prima una sfumatura, dopo un colore, poi un impulso motorio inaspettato: così nella Canzonetta, coi suoi modi quasi spagnoleggianti e le sue tenere effusioni tra solisti e soli, l’orchestra si trasforma in contraltare atmosferico, in fiato che sostiene e proietta il canto, in motore della drammaturgia musicale quando nel finale del secondo movimento si prepara lo sfolgorio dell’iridescente Allegro vivacissimo conclusivo. Certo, senza un bravo solista non si cantano messe, e Stefan Milenkovich, chiamato all’arduo cimento, è artista di prim’ordine: violinista tecnicamente gagliardo – non una sbavatura, né un’esitazione dinnanzi ai passaggi più impervi – e interprete di grande eleganza – stupende le variazioni nelle cadenza del Finale –, sposa con Bonato l’idea di un Čajkovskij inteso come perfetto connubio tra poesia e virtuosismo, tra apollineo e dionisiaco, e insieme innalzano il concerto ad altezze vertiginose. Apprezzatissimo il bis di Milenkovich, l’Allemanda dalla partita n. 2 di Bach.
La Settima di Beethoven, nella seconda parte del concerto, è un vero e proprio capolavoro, tanto per la qualità delle idee messe in campo che valorizzano appieno financo le pause, quanto per la qualità dell’esecuzione di un’orchestra che tra le mani di Bonato brilla per nitore di suono e varietà di tinta. Ecco, nel corso dell’intera sinfonia, nitore e varietà di tinta favoriscono allora il balzo all’orecchio di dettagli e filigrane, sottolineature e primi piani, mai squadernati con fare pedissequo e saccente, piuttosto invocati quali argomenti e argomentazioni di una lettura che ci tiene col fiato sospeso, una lettura che ancor prima del ritmo della musica celebra il ritmo drammatico della narrazione, una lettura che non si abbandona incauta all’asettica ebrezza dell’impulso danzereccio ma con l’impulso danzereccio dà sfogo all’eccitazione accumulata. Del resto Beethoven è come una molla in tensione: agli estremi immobile, razionale, quadrata, nel mezzo agitata da forze oppositive di diverse entità, fondamentali all’equilibrio e alla solidità del sistema stesso. Ed è proprio il perfetto equilibrio tra forze e dinamiche interne a governare, ad esempio, l’Allegretto in seconda posizione diretto da Bonato in maniera straordinaria – tra i più belli mai ascoltati –, quando il solenne canto di preghiera, sull’arcata di un interminabile e mozzafiato crescendo,va poi a stemperarsi negli ameni scambi tra i fiati nella parte centrale. Il Presto poi è trionfo del fraseggio in punta di fioretto, del colpo da maestro, dell’accento istrionico messo lì con somma intelligenza per rinnovare il mordente dell’ulteriore ripetizione, senza mai perdere di vista il bilanciamento dei poli oppositivi che di questa concertazione in particolare, e di Beethoven in generale, è poetica.
Dietro di noi una signora prendeva informazioni sul giovanissimo direttore. Segnatevi anche voi il nome, se ne parlerà.