Mozart e mosaici

di Roberta Pedrotti

Nel mosaico della trilogia mozartiana al Ravenna Festival non tutte le tessere sembrano essere di eguale qualità o disposte nel migliore dei modi; non si perde tuttavia la riflessione su un disegno che solo dal vivo e saggiando le distanze di spazio e tempo, percezioni e linguaggi, si può ammirare nella sua completezza, perfino là dove qualcosa venga a mancare.

RAVENNA, 31 ottobre, 1 e 2 novembre - Tutti possiamo avere negli occhi mille e mille riproduzioni dei mosaici ravennati: Sant'Apollinare nuovo e in Classe, San Vitale, il mausoleo di Galla Placidia, Sant'Andrea... Ma averne osservato i dettagli ingranditi, ravvicinati su un libro o in digitale può voler dire conoscerli? Servono le distanze obbligate, gli spazi, perfino quel segmento di tempo che ci separa dalla creazione e che significa perdita del rapporto naturale e quotidiano con un certo codice iconografico, con simboli, concetti e linguaggi, significa perdita dell'effetto di luce originario (alle vetrate antiche Vittorio Emanuele III volle sostituire ovunque sottili lastre d'alabastro a imitazione di quelle del solo mausoleo di Galla Placidia), significa perdita di rivestimenti in marmo, di altre decorazioni musive, sostituite con interventi barocchi o settecenteschi.

Anche la perdita, la distanza gioca un ruolo importante per un'arte fatta di mille frammenti diversi e coordinati, che deve essere fruita di persona, direttamente, per percepirne la profondità, la vita di un'immagine solo apparentemente bidimensionale. È un po' come l'opera, allora, come i capolavori di Mozart e Da Ponte, nella loro universalità che si misura anche nella distanza dalla società e dall'etica del tempo in cui sono nati. Trilogia, peraltro, perfettamente costruita nelle geometrie dei suoi elementi, così come i mosaici, che a simmetrie e rapporti numerici (e fra i sessi) badavano assai, così come le tre cantiche della Commedia, per citare un altro polo della storia cittadina. Allora sembra quasi naturale che la costola operistica del Ravenna Festival che da dieci anni anima l'autunno del teatro Alighieri sia triplice. Naturalissimo, “e, se Susanna vuol, possibilissimo”, che il decennale sia festeggiato proprio con Le nozze di Figaro, Don Giovanni e Così fan tutte.

Un trittico musivo, vien da dire, formato anche da tessere comuni assemblate in maniera diversa per raccontare prima una storia di contrapposizioni su tre livelli (anagrafico, di genere, di classe), poi un singolo contro l'intera società (dai nobili fino ai contadini), poi di singoli alle prese solo con sé stessi e i loro rapporti interpersonali (Così fan tutte è stata dipinta come opera misogina, eppure vediamo tre donne indipendenti da ogni condizionamento economico e familiare confrontarsi con la libera scelta di aderire o meno a un modello etico e giurare “al cielo” o “alla terra”). Allora, non sarà poi peregrina l'idea del regista Ivan Alexandre di pensare a un'idea unitaria, di una “carriera del libertino” dall'apprendistato di Cherubino alle imprese di Don Giovanni al disincanto osservatore di Don Alfonso. Non peregrina l'idea, ma purtroppo discutibile la realizzazione, che si appoggia senza trarne particolare frutto sull'arcinoto e iperutilizzato espediente metateatrale: un palco, i personaggi che prima dello spettacolo o mentre non sono attivi chiacchierano, ripassano, si rilassano nei camerini, dove però anche si svolge l'azione vera e propria, in un'identificazione degli spazi non sempre chiara. Tuttavia, l'impianto scenico (di Antoine Fontaine, come i costumi) è di gran lunga la cosa migliore della produzione proveniente da Stoccolma e Versailles, e ci ricorda i fasti di Damiani per Strehler o di Ponnelle. Peccato, allora, che Alexandre dimostri la singolare abilità per lasciarsi sfuggire tutte le occasioni di sensualità (una Zerlina e un Masetto focosi come impiegati agli sportelli), di ironia, di malinconia che Mozart e Da Ponte servono su un piatto d'argento. Addirittura manca gli espliciti riferimenti gestuali di “Venite, inginocchiatevi”. Viceversa, vuole inventarsi altro, e casca male quando degenera nel triviale fine a sé stesso con Leporello che si denuda e porge le terga al pubblico per mostrare di essersi tatuato il catalogo su tutto il corpo. Una metafora del rapporto fra servo e padrone? Macché, sembrava solo voler far ridere con un un uomo in mutande (e oltre, ma non troppo: il nudo frontale ci è risparmiato).

Se la firma registica è una, le bacchette sono tre, ma tutte provenienti dalla Italian Opera Academy diretta da Riccardo Muti. Per tener fede alla metafora dantesca, il triplice percorso porta anche a una progressiva ascesa. Infatti, spiace dirlo, ma la prima serata, con Le nozze di Figaro, il più giovane dei concertatori (Giovanni Conti, classe 1996, unico uomo e unico italiano) non si copre esattamente di gloria. Fin dalle prime battute della Sinfonia, invece di innescarsi il meccanismo della folle journée, la frase musicale si accascia su sé stessa e si spegne. Questo incedere per inerzia, quasi privo d'accenti, si conferma nel prosieguo, assommandosi anche a varie sbavature d'assieme. L'emozione, l'inesperienza, la statura del capolavoro possono aver giocato a sfavore di Conti, ma al momento è difficile riconoscere un seppur acerbo talento. E sì che, sia detto e ripetuto, l'Orchestra giovanile Cherubini in tutte le tre prime fa ottima figura per qualità del suono, coesione e precisione. Infatti la sera seguente, con Erina Yashima sul podio per Don Giovanni si mostra altra verve, anche se purtroppo la trentacinquenne tedesca di origini giapponesi sembra troppo spesso intendere per verve il suonare forte più che il curare qualità del suono, dinamiche e articolazioni, sicché il maggior impatto in superficie non è esente da imprecisioni e al lavoro di cesello sembra preferire pialla e martello. Meglio va per Così fan tutte con la trentaduenne brasiliana Tais Conte Renzetti (nessuna parentela con Donato, con il quale tuttavia si è pure perfezionata) a dimostrare la migliore tenuta dal punto di vista della pulizia musicale e del rapporto fra la buca e il palco, nonché, finalmente, una vera sensibilità teatrale, siglando alcuni dei momenti più felici di questi tre giorni mozartiani (si citi almeno, ma non solo, il duetto “Il core vi dono”). A vantaggio di Così fan tutte è andato anche un cambiamento all'ultimo momento che ha visto Florian Sempey subentrare come Guglielmo al titolare Robert Gleadow. Il baritono francese non sarà forse un mozartiano d'elezione, lo abbiamo apprezzato in genere nell'estroversione di Figaro (Rossini) e Belcore o in panni belcantistici più seri e sanguigni (Le Roi nell'Ange de Nisida a Bergamo, dove tornerà fra pochi giorni per La favorite), tuttavia sa cantare, tenere il palcoscenico, non eccede i limiti del buon gusto. Insomma, ci dà soddisfazione e fa un po' tutto quello che, ahinoi, Gleadow non aveva fatto nei giorni precedenti come Figaro e Leporello. Oltre a spogliarsi spesso e volentieri come attore aveva, infatti, esibito più che altro un'estenuante ipercinesi che non sopperiva alle troppe carenze vocali in tutta la tessitura.

Sempre in Così fan tutte appaiono altri elementi fra i migliori della trilogia, in primis José Maria Lomonaco, che è una Dorabella dal canto morbido e ben timbrato, spigliata, fresca e appassionata. Anche Anicio Zorzi Giustiniani, ad onta di un registro acuto un po' sottile e teso, si fa apprezzare per il buon gusto del suo Ferrando. Viceversa, Miriam Albano carica troppo la sua Despina, quasi a voler sostituire Gleadow nell'eccesso mimico e gestuale, mentre il personaggio si gioverebbe di un arguto gioco di sottrazione. Già ascoltati nelle sere precedenti, Ana Maria Lambin non è memorabile né come Contessa né come Fiordiligi, ma trova una certa suggestione in “Per pietà ben mio perdona”; Christian Federici si disimpegna con correttezza pur non possedendo il carisma e lo spessore di Don Giovanni (peccato che sia stato così poco incisivo proprio in “Ho fermo il core in petto: non ho timor, verrò!”, al termine di una recita comunque senza intoppi) né l'arte sopraffina del recitar cantando che si vorrebbe da Don Alfonso.

Nelle Nozze di Figaro la migliore in campo è senz'altro Lea Desandre come Cherubino, con un canto luminoso e raffinato, seppur non esente da qualche piccolo incidente d'intonazione. Manon Lamaison era Barbarina e Norman D. Patzke Bartolo e Antonio; non dispiace troppo che a Paco Garcia (Basilio/ Don Curzio) e Valentina Coladonato (Marcellina) siano state tagliate le arie del quarto atto. Clemente Antonio Daliotti sconta una certa povertà di armonici e proiezione restituendo un Conte poco autorevole. Arianna Vendittelli è una Susanna dalla voce penetrante ma un po' dura e asprigna per il personaggio, che tuttavia le impone un controllo dell'emissione che invece come Donna Elvira rischia troppo spesso di venir meno, vuoi per il carattere facile all'isteria della dama di Burgos, vuoi per il tratto più vigoroso che calibrato impresso dal podio da Yashima. Sempre in Don Giovanni funziona bene, per timbro atro e potenza, il Commendatore di Callum Thorpe, che tuttavia non fa altrettanto bene come Masetto (il fatto che sia alla prima di Praga sia a quella di Vienna le parti fossero sostenute da uno stesso cantante non è garanzia di successo di per sé). Poco a fuoco la Zerlina di Chiara Skerath. Iulia Maria Dan onora la parte di Donna Anna senza particolare spessore, così come non troppo incisivo risulta di Don Ottavio di Julien Henric. Il fatto che però “Dalla sua pace” non sia stata eseguita (senza troppi rimpianti, come del resto per “Mi tradì quell'alma ingrata”) è dovuto soprattutto alla scelta di proporre l'opera nella prima versione, quella di Praga del 1787. Una scelta che ci sentiamo di sottoscrivere a appoggiare anche se ci costa la rinuncia a due splendide scene e arie. Ricordiamo che il Don Giovanni così come siamo abituati ad ascoltarlo è un ibrido fra le stesure di Praga e quella di Vienna dell'anno successivo (dei numeri composti nel 1788 non è entrato nella tradizione solo il duetto fra Leporello e Zerlina “Per queste tue manine”, pagina che in effetti ci pare di minore ispirazione), ma che l'inserimento delle due nuove arie avvenne, per mano di Mozart e Da Ponte, preservando l'equilibrio complessivo: in entrambe le versioni il tenore ha un unico assolo e una sola aria segue il sestetto e “Ah pietà, signori miei”. Dunque, la miscela in uso è ricchissima di musica magnifica, ma tornare alla forma delle versioni d'autore ci permette di apprezzarne meglio il reale disegno drammaturgico. Diciamolo, funzionano meglio: Mozart e Da Ponte avevano ragione, val la pena di dar loro retta e accettare di non fare una scorpacciata di arie sublimi. E sempre a proposito di versioni: nulla al momento pare confermare che l'autore abbia voluto e abbia effettivamente tagliato il finalino moraleggiate che segue la dannazione del dissoluto, né nulla pare ostare alla sua presenza, che si segua la via di Praga o di Vienna.

Ci resti, allora, di un trittico di mosaici magari un po' accidentati, il gusto, sì, di ammirare le tessere al loro posto e in buono stato, ma anche il pensiero costruttivo sulle forme, i simboli, sulle distanze che solo dal vivo si possono ben comprendere: siano nelle prospettive interne, nelle luci e nelle profondità del disegno, siano nel nostro punto di vista, siano nel tempo e nello spazio dove si collocano e che sempre cambiano, lasciandoci la meraviglia di capolavori che continuiamo ad ammirare, suonare, cantare, agire.