Il vero elisir

di Roberta Pedrotti

Alle recite dell'Elisir d'amore al Regio si affianca l'esperienza toccante e formativa, non solo per i protagonisti, del laboratorio teatrale e musicale realizzato con i detenuti del carcere di Parma.

PARMA, 16 marzo 2024 - All'ingresso si presenta la carta d'identità: siamo il lista, ecco il pass. Poi i controlli di rito, borse prima sul tapis roulant e poi depositate negli armadietti; suona il metal detector, ma è solo per il bracciale e una scatoletta di mentine: si prosegue. L'erba nel cortile è verdissima, il cielo terso, arrivare nella piccola sala teatrale sembra una bella passeggiata in una ridente giornata di primavera, se non fosse che, volgendo lo sguardo ai palazzoni grigi e alle loro finestrelle quadrate non ci ricordiamo dove ci troviamo, nel carcere di Parma, area di media sicurezza (qui c'è anche la massima).

Lo scorso anno il Teatro Regio di Parma aveva varato il suo Manifesto etico per una più attiva integrazione fra l'attività artistica e la società. Non è rimasto lettera morta, dando un'ulteriore slancio anche a iniziative già intraprese da anni, fra cui questa dei laboratori teatrali e musicali con i detenuti, che si sta ormai consolidando in una collaborazione continuativa. Possiamo leggere delle anteprime del Regio aperte a coloro ai quali le uscite sono concesse e dell'entusiasmo stupefatto di chi mai prima d'ora aveva visto un'opera e un teatro; possiamo leggere degli artisti professionisti che si esibiscono fra le mura del penitenziario e dei carcerati che intonano alcune pagine in coro (lo scorso autunno hanno addirittura preso parte alla fuga finale di Falstaff). Possiamo leggere e sentirci raccontare molte cose, ma non potranno mai dare l'idea di cosa significhi essere qui e attraversare i controlli e i percorsi accessibili a noi esterni sapendo che fra quelle pareti brulica qualcosa, un intreccio di rapporti e sofferenze provate e inflitte, che non potremo mai indovinare fino in fondo. Essere qui e trovarci di fronte una ventina di visi enigmatici: qualcuno potrebbe avere vent'anni, qualcuno una sessantina, qualcuno non si sa; il pallore quasi diafano dell'Est sfuma fino a tinte olivastre e al nero più intenso nei loro incarnati; parlate di varie regioni italiane si mescolano agli accenti più esotici, come pure i loro nomi raccontano. Non sappiamo nulla delle loro vite, ma sappiamo che se sono lì qualcosa di terribile è successo. Empatizzare con i deboli innocenti è facile, non lo è altrettanto con le ombre dall'aria poco raccomandabile che ci fanno allungare il passo e girare lo sguardo in una via solitaria o la sera in stazione. Per questo essere qui è importante, perché non siamo nel conforto dei nostri salotti e foyer reali e virtuali a goderci belle parole sull'universalità della musica e l'importanza dell'arte o a lanciarci frecciate velenose o peana su registi, cantanti e direttori. No, vediamo davanti a noi degli esseri umani che cantano con tutte le imperfezioni di chi non aveva alcuna preparazione pregressa, ma con sincera dedizione ed emozione le parole di Felice Romani e le note di Donizetti; esseri umani che si sono immersi in questa storia e hanno studiato un'opera di quasi duecento anni fa. Loro, che vengono da lontano, loro che magari hanno fatto cose orribili, loro che forse queste cose orribili le hanno fatte perché non hanno mai potuto conoscere quell'umanità, quei sentimenti, quella profondità che ora riscoprono o forse scoprono per la prima volta intonando “Una furtiva lagrima”.

Il racconto dell'Elisir ad un tratto si interrompe per dare spazio a una recita nella recita: la storia di un cavaliere che incontra una bella fanciulla fidanzata con un tipaccio prepotente, lei si innamora a prima vista del nuovo arrivato e vorrebbe offrirgli un elisir d'amore, lui accetta l'amicizia, la difende, ma rifiuta il filtro, perché se amore dovrà essere, sarà spontaneo, ché i sentimenti non si comandano e non si comprano. Il protagonista sembra lo stereotipo del galeotto “duro”: braccia muscolose e tatuate, addome alcolico, codino. Eppure, è anche l'autore di questa commediola tenera, di questa fiaba a sorpresa sulle ragioni e la libertà del cuore. L'opera è una forma d'ispirazione e di educazione sentimentale, di formazione emotiva e relazionale che forse, fra le nostre speculazioni intellettuali, rischiamo di perdere di vista. Invece eccola lì, a dirci che si può agire male anche solo perché non si è mai conosciuto il bene, che si può sempre rinascere e risalire. Anna Frank non ebbe modo di sperimentare fino in fondo la sua fiducia nell'intima bontà delle persone, ma ciò non vuol dire che non esistano colpevoli che meritino questa fiducia e che la responsabilità sia anche di esperienze e contesti che hanno negato la conoscenza del bene e del male, dell'empatia e dei sentimenti. Condannare può essere molto più facile di capire per aiutare.

Sono tutti pensieri che si affollano mentre il racconto procede, mentre si cantano l'aria celebre e tanti cori, interagendo con il giovane baritono, allievo del Conservatorio di Parma, Alex Fronzò, che canta pagine di Dulcamara, ma soprattutto con i due veri artefici del percorso ci ci ha condotti qui: il pianista Milo Martani e Gabriella Corsaro nelle molteplici, vulcaniche e affettuose vesti di attrice, presentatrice, soprano (per le parti di Adina e Giannetta), maestra del coro, motivatrice e quant'altro si possa (o non si possa) immaginare fondamentale per realizzare quel che davanti a noi si condensa in un'oretta di spettacolo, ma è chiaramente molto di più. Perché non importa tanto quel che a noi viene offerto in questo momento, per quanto profondo e toccante, conta tutto quello che lo ha preceduto a quelle mura, perché negli sguardi sul palco possiamo intuire che tanta strada è stata fatta, tanti semi gettati, e noi vediamo ora delle persone, non dei colpevoli.