L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Pastorale a palazzo

 di Francesco Lora

Il Teatro La Fenice allestisce nel Palazzo Ducale di Venezia la Dafne di Caldara, con punte d’eccellenza nella direzione di Montanari e nella precocissima maturità artistica dei cantanti Aspromonte e Vistoli.

VENEZIA, 13 luglio 2015 – Un paradosso musicale dei nostri giorni è, spesso, la vicendevole indifferenza tra mercato editoriale e mercato performativo. In altre parole: si eseguono concerti e si rappresentano opere ponendo in mano ai musicisti edizioni improvvisate, zeppe d’errori, trascritte di corsa da questa o quella partitura musicale; nel contempo, rifinite edizioni a stampa di musiche da riscoprire sono acquisite dalle biblioteche, ma rimangono poi carta muta ad uso degli studiosi, senza favorire la riesecuzione delle musiche portate in bella copia. Quest’ultimo è il caso della Dafne di Antonio Caldara, una pastorale in tre atti rappresentata per la prima volta a Salisburgo nel 1719: non un capolavoro assoluto, ma un esempio eccellente del mestiere di un compositore sommo, favorito dall’imperatore Carlo VI d’Asburgo e ammirato per tutta l’Europa. Della partitura esiste un’edizione fin dal 1955, ormai polverosetta nel metodo filologico; eppure, solo da pochi giorni si è potuto riascoltarla per intero, grazie all’iniziativa del Teatro La Fenice: tre recite, il 9, 11 e 13 luglio, nella Sala dello Scrutinio del Palazzo Ducale.

Il valore della lettura musicale è garantito dalla concertazione di Stefano Montanari: alla testa dell’Orchestra Barocca del Festival “Lo spirito della musica di Venezia”, ben risonante a dispetto della riduzione d’organico quasi alle parti reali, egli conferma l’abilità di tenere vivace il discorso con fraseggi decisi e imprevedibili, tempi brillanti ma non precipitosi, rapporto equilibrato ma entusiastico con il palcoscenico. Superato lo sfortunato episodio della Iuditha triumphans [leggi la recensione] allestita nelle settimane precedenti, ecco di nuovo la Fenice che con oculata scelta d’artisti sa dettar legge nella proposta del repertorio raro sei-settecentesco. Stupisce trovare, nel programma di sala, non un intervento di Montanari, vero padrone di casa dell’operazione, bensì un’intervista al regista Bepi Morassi, che nel parlare di musica fa quel che può. Assai grazioso è tuttavia il suo spettacolo, chiaro nello svolgimento dell’azione e ben spartito tra il recupero di un’enfatica gestualità barocca e la messa a punto di una recitazione di verosimiglianza cinematografica. I costumi, dichiaratamente settecenteschi ma con disattenzioni rinascimentali (vedi i cosciali assegnati al primo uomo), e tuttavia sempre di alto esito decorativo, si devono a Stefano Nicolao. Le scene, adespote, constano di macchine barocche ridotte all’essenziale tecnico e visivo, tutte azionate a mano.

Generale solidità e punte di maestria si trovato nella compagnia di canto, dove quattro artisti impersonano altrettanti caratteri principali e tre apparizioni divine. Dafne e Venere spettano a Francesca Aspromonte, giovane soprano di musicalità imperativa, capace di trascolorare in un battibaleno dal registro brillante a quello patetico, e di fondere inestricabilmente le ragioni del canto con quelle della poesia e del gesto: non solamente una promessa, ma già una delle più complete artiste che il teatro d’opera dell’età del basso continuo possa oggi vantare. La parte di Febo spetta al controtenore Carlo Vistoli, del quale già si lodavano le qualità ma che in tempi recenti ha doppiato sé stesso: non si è mai ascoltato un cantante italiano che, nella sua corda, sappia tenergli testa per ricchezza di armonici, personalità di timbro, pastosità d’emissione, nobiltà di legato, minuziosa ed energica sgranatura delle semicrome nell’ornamentazione e nei passaggi d’agilità; e non ve n’è al mondo un altro che sappia recitare con pari esattezza fonetica e fragranza espressiva i versi, per non parlare dell’insospettata disinvoltura attoriale e della bellezza della figura.

Qual è il patto diabolico che sovrintende ai fenomeni di Aspromonte e Vistoli? L’essere italiani, per spontaneo istinto e dotta formazione, così da saper cogliere e sintetizzare, prima ancora di meditarvi sopra, ogni risorsa retorica nelle melodie e nelle parole. Non avere in tasca l’italianità, in questo repertorio, equivale anzi a una sorta di peccato originale: non a caso il tenore canadese Kevin Skelton, come Aminta e Mercurio, si affanna a calligrafare ogni nota o sillaba, come gli avranno insegnato a fare in mille qualificate masterclass d’oltralpe; ma tanta dedizione non basta a procurargli la naturalezza dell’eloquio e l’autenticità delle inflessioni, né un timbro accattivante o un’estensione facile o un virtuosismo insolente; v’è la bontà del coronamento mentre le fondamenta latitano. Non un fuoriclasse, ma un artista avveduto e sfumato è infine il baritono Renato Dolcini come Peneo e Giove. Ottima musica, ambiente torrido e ventagli all’opera, applausi gioiosi.


 

 

 
 
 

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