L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La bella Addormentata all'opera di roma

Un dono alla melodia e alla danza

 di Stefano Ceccarelli

La bella addormentata, capolavoro di Čajkovskij, torna dopo più di un decennio (la première nel 2002) nell’allestimento ormai classico del Teatro dell’Opera di Roma, allestimento che ha il pregio di piacevolissime scene e ottimi costumi (Buti). Alla direzione dell’orchestra v’è Carlo Donadio, che fa bene il suo mestiere. Aurora è graziosamente danzata da Rebecca Bianchi; Desiré, in alternanza con il neoeletto primo ballerino Claudio Cocino, da Giacomo Luci che seppur preciso e pulito, risulta alquanto freddo e a tratti stanco. Eccellenti i comprimari e il corpo di ballo del teatro capitolino.

ROMA, 10 febbraio 2017 – Il bell’allestimento firmato dal Teatro dell’Opera di Roma de La bella addormentata di Pëtr Il’ič Čajkovskij ha ormai superato il decennio di vita: ma non dimostra affatto la sua età, anzi – a mio avviso – è il più fresco e spettacolare degli allestimenti di repertorio del balletto dell’Opera, rinnovato sempre da diverse interpretazioni della storica coreografia di Marius Petipa, punto di partenza imprescindibile, che per primo dipinse di coreografie le splendide musiche čajkovskijane.

Del compito di coreografo è incaricato Jean-Guillaume Bart, che ha già affrontato da interprete e da coreografo stesso La bella addormentata. La bella intervista contenuta nelle note di sala (di S. Poletti) esplicita gli intenti artistici di Bart, che si lascia apprezzare per una vasta cultura e una sensibilità notevole per diversi aspetti della danza: la ricostruzione filologica, il respiro dei movimenti, l’armonia generale, l’esecuzione di taluni passi. Il risultato finale è assai apprezzabile: s’è soprattutto notata l’attenzione, squisitamente drammaturgica, all’elemento pantomimico, al respiro, all’«intonazione» dei «‘recitativi’» che compongono gli elementi di collante fra i numeri del balletto: in tal senso, ricorderei l’introduction del prologo, con la narrazione dei soprusi del Re Florestan ai danni della fata Carabosse (una spiegazione della sua natura maligna); e l’ingresso della Fata dei lillà e di Desiré nel castello di Aurora (2.19, Scène du château de sommeil), che scacciano i pipistrelli sgherri e Carabosse disvelando la corte di Aurora. Del resto, Stravinskij non scriveva forse che La bella addormentata è «un’opera di comunicatività così diretta»?

La parte della première danseuse Aurora è sostenuta dalla prima ballerina Rebecca Bianchi, che dà prova di non poca maturità artistica in un ruolo certo difficile, cui però è naturalmente avvantaggiata, incarnando drammaturgicamente il physique du rôle della parte: angelica, delicata, sa dosare il campionario di emozioni che il personaggio le offre. Dalla ritrosia dell’incontro coi pretendenti, all’infantile ingenuità di chi accetta dei fiori con un fuso nascosto ad arte, fino all’elegiaca tristezza della mesta danza della proiezione spiritica di Aurora, concludendo col risveglio e l’apoteosi assieme a Desiré. Tecnicamente, la Bianchi ha sostenuto una buona Entrée d'Aurore (I), distinguendosi nel successivo Grand pas d'action per una buona esecuzione della variazione: forse un po’ tesa nei difficili tour de promenade del fascinoso Grand adage à la rose. Languida, spettrale nel Pas d'action (II) dove interpreta lo spirito della fanciulla, esprimendosi bene nella sua variazione. Nel Grand pas de quatre (III) v’è di fatto un passo a due fra Desiré e Aurora, forse il momento meno emozionante della sua performance, dove arriva lievemente stanca e rigida in taluni passaggi. Il principe Desiré è danzato da Giacomo Luci, che, sarà forse per l’emozione, o per una serata no, stenta a brillare. Nelle scene danzanti della caccia reale (II) è pulito e preciso nei movimenti, ma freddo, quasi distaccato, non realizzando quel «respiro del movimento» (Bart) che si dovrebbe confare a un ruolo come il suo. Meglio nel Grand adage, quando mette un po’ d’anima nel tentare di ghermire lo spirito evanescente di Aurora. Come ho già detto per la Bianchi, in generale il finale III non ha visto una trascinante interpretazione dei due primi ballerini. Però Luci è apparso particolarmente stanco: lo s’è visto soprattutto nella sua variazione, nei coupé jeté en tournant en manége e nelle altre difficoltà, dove ha palesato una danza astenica. Peccato, perché di balletto in balletto acquisisce sempre più, palpabilmente, pulizia nei movimenti e nelle figure. Deliziosa la Fata dei lillà di Elena Bidini, che sa soprattutto interpretare col volto e con una gestualità eterea, autenticamente tardoromantica: citerei la sua variazione nel prologo e l’entrata per neutralizzare l’incantesimo di Carabosse alla fine del I come momenti esemplificativi. Complimenti anche alla Carabosse di Roberta Paparella, in un ruolo soprattutto di carattere e anche, in fin dei conti, divertente. Complimenti alle fate del Prologo, Erika Gaudenzi, Giovanna Pisani, Federica Maine e Eugenia Brezzi, che hanno saputo ben vivacizzare le loro variazioni; ai principi pretendenti, Giacomo Castellana, Loick Pireaux, Marco Marangio e Giuseppe Schiavone; e alle Pietre preziosa del III, oltre alla Maine, Sara Loro, Marianna Suriano e Giorgia Calenda, per quell’incantevole coreografia del Pas de quatre. Deliziosi anche gli interventi dei personaggi delle altre fiabe. Massimiliano Rizzo e la Gaudenzi danzano uno spassoso passo a due felino (Gatto con gli stivali e Gatta bianca); così come il comico inseguirsi di Marta Marigliani (Cappuccetto rosso) e Michele Morrone (il Lupo); autenticamente fiabeschi Virginia Giovanetti e Domenico Gibaldo (Cenerentola e il Principe). Una menzione a parte meritano le variazioni di Alessio Rezza nei panni dell’Uccello blu e di Giovanna Pisani in quello di Florina: Rezza incanta ancora (come nel 2014) per le sue doti aeree, muscolari ma delicate al contempo, inanellando splendidi brisé volé. Tutto il corpo di ballo merita i complimenti per la precisione delle danze e la bellezza dell’esecuzione coreutica: forse andrebbe rivista la versione petipiana del celeberrimo Grande valse villageoise (I), francamente un po’ troppo poco vivace. Il resto delle coreografie è assai ben eseguito: al netto di qualche fisiologico errore, la tenuta complessiva è tale da attestare l’ottimo livello del corpo di ballo capitolino: la Abbagnato può certamente essere orgogliosa.

Lodi a parte – ancora una volta – meritano le scene e i costumi di Aldo Buti: scene ricche e ricercate, con particolari arcadici di sfondo (giardino all’italiana), sempre lievemente modificate da un atto all’altro, sulle cromature dell’oro e del blu, con uso di pannelli di velatino a decorazioni naturalistiche (belle le rose incornicianti la scena nell’ultimo quadro). I costumi sono assai ricchi e ben confezionati. Vero coup de théâtre è la scena dell’entrata di Desiré nel castello magicamente dormiente di Aurora: il gioco di luci traverso il velatino e con il retropalco crea un gradevole effetto ottico di profondità e indefinito, con la corte magicamente addormentata e aurora sullo sfondo.

Bene anche la facies musicale: Carlo Donadio dirige soprattutto stando attento a seguire le evoluzioni dei ballerini. Peccato qualche infausta scelta cromatica nel far risaltare zone della partitura lievemente dissonanti, atte a creare un mero contrasto coloristico, impolverando quel «dono della melodia» (Stravinskij) che tutti unanimemente attribuiamo a Čajkovskij.

Fra gli applausi del pubblico mi sovvengono le parole di Bart sulla proporzione e l’armonia delle forme nella danza paragonate alle bellezze romane: «quella armonia di proporzioni che domina nelle architetture di una città come Roma è la stessa che nutre l’ideale della danza classica». Ci si augura che questa proporzione, estetico piacere, possa sempre sfolgorare sui palcoscenici del mondo.

 


 

 

 
 
 

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