L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

poliuto

Il sogno di Nourrit

 di Roberta Pedrotti

G. Donizetti

Poliuto

Fabiano, Martinez, Golovatenko

direttore Enrique Mazzola

regia Mariame Clément

London Philharmonic Orchestra

The Glyndebourne Chorus

Glyndebourne, 15 luglio 2015

DVD Opus Arte OA 1211 D, 2016

Ultimo sogno irrealizzato di Adolphe Nourrit, che propiziò scelta del soggetto e composizione ma morì suicida senza aver potuto tenere a battesimo operistico l’amato eroe di Corneille, Poliuto ha avuto un cammino controverso e travagliato: rappresentato postumo per la prima volta – dopo Nourrit anche Donizetti era morto senza poter portare in scena la partitura se non nella fortunata rielaborazione francese, Les martyrs – ebbe fauste accoglienze e fu prediletto da molti illustri interpreti, primo fra tutti Francesco Tamagno, assiduo frequentatore del ruolo eponimo dopo aver compiuto il debutto assoluto in teatro nel piccolo ruolo di Nearco. Questi fasti vocali hanno rischiato, però, di ritorcersi poi contro la permanenza in repertorio del titolo, per il timore reverenziale che recite come quelle scaligere del 1960 con Callas Corelli e Bastianini possono aver istillato nel mondo melomane e nelle generazioni successive di cantanti. Timore, a ben guardare, neppure troppo fondato, ché se l’opera facile non è, non è nemmeno inavvicinabile né più ardua di altre che ricorrono più spesso nei cartelloni. Anzi, la sosterrebbe una drammaturgia sintetica, quasi fulminea, che contribuì ad alimentarne le fortune in virtù di un preteso spirito “verdiano”, secondo la tendenza, dura a morire, a veder sempre anticipazioni, attribuzioni e affiliazioni al più noto. Ogni opera d’arte è, inevitabilmente, frutto di esperienze precedenti, sia in continuità sia in rottura, quanto a sua volta antecedente di futuri sviluppi, contrastanti indifferenti o conseguenti che siano; Donizetti è stato un grande drammaturgo musicale e lo dicono, soprattutto, le sue opere della maturità senza scomodare Verdi o quant’altri. Qui lo proclama l’economia dei numeri, che ufficialmente privilegia le pagine solistiche (cinque fra arie, cavatine e preghiere) sui duetti e i grandi pezzi d’assieme (due ciascuno), sì da focalizzare in massimo grado l’attenzione sulle dinamiche psicologiche più intime, sul contrasto interiore fra dovere (politico, familiare, religioso) e passioni. Coro e pertichini innervano tuttavia le forme conferendo loro un respiro teatrale più ampio, fino ad agire nella fusione di preludio e introduzione, a tutti gli effetti sinfonia con cori al pari di quella che Rossini aveva predisposto per Ermione (o preludio con coro come in Ricciardo e Zoraide).

Stupisce davvero che una partitura tanto incisiva non abiti i cartelloni al pari, o quasi, di Lucia di Lammermoor e ancor più stupisce che per debuttare nel Regno Unito – terra di tanti recuperi donizettiani – Poliuto abbia dovuto attendere questa produzione del 2015 del Festival di Glyndebourne.

Forte dell’edizione critica di William Ashbrook e Roger Parker, questo Poliuto non schiera stelle né specializzazioni, ma testimonia un panorama professionale il cui bagaglio di base, se non la più rifinita emissione, assimila ormai naturalmente il vocabolario dello stile belcantistico. Si intente in tutto il cast (che schiera un unico madrelingua, Emanuele D’Aguanno, quale limpido Nearco) un’attenzione alla chiarezza della pronuncia e dell’intenzione anche laddove la dizione non sia delle più sciolte; parimenti la cura musicale, la dedizione al testo donizettiano redimono anche le mende tecniche individuali. Così Ana Maria Martinez viene a capo della parte di Paolina con bel temperamento e apprezzabile partecipazione anche a onta della tendenza a incupire qualche suono e aprire acuti che potrebbero esser più liberi, morbidi e controllati. Non sarà, poi, una virtuosa di prima sfera, ma i passi di coloratura non le creano troppo affanno: peccato che manchi il celestiale, ispirato involo del “Suon dell’arpe angeliche”. Da parte sua, Michael Fabiano si dà anima e corpo a Poliuto, lo fa con buon gusto e accenti appropriati, ma senza evitare, purtroppo, di cedere alla tentazione di spingere per assecondare l’autorità tragica del personaggio. Così nel passaggio all’acuto soprattutto la voce tende ad aprirsi, a perder qualità e smalto: la parte è risolta nel complesso con onore, pur senza offrire uno sguardo particolarmente illuminante sull’ultimo ruolo, e il primo all’italiana, concepito per Nourrit. Igor Golovatenko, baritono di pasta chiara e dall’emissione pulita, ben completa il terzetto protagonista facendo di Severo un uomo fiero e innamorato più che un semplice bieco antagonista. Questo è piuttosto il Callistene di Matthew Rose, talora un po’ greve nell’articolazione della parola cantata belcantista, ma efficace in una definizione senza eccessi dell’insidioso gran sacerdote. Sia nei panni degli oppressori, sia in quelli degli oppressi, il coro del Festival ben figura.

Sul podio dell'affidabilissima London Philharmonic, Enrique Mazzola s’impegna a garantire l’incedere inesorabile del dramma, benché il suo fraseggio non sia sempre intrigante ed eloquente come si vorrebbe (specie dell’epilogo), abbandonandosi peraltro talora a divagazioni agogiche, specie rallentandi, un po’ eccessive e poco convincenti. 

Non aggiunge molto l’allestimento firmato dalla regista Mariame Clément, che ha il pregio dell’essenzialità e iscrive la vicenda fra quinte petrose quasi astratte (Julia Hansen), luci ben studiate (Bernd Purkrabek) e sobrie videoproiezioni (fettFilm): la presenza romana in Anatolia, la clandestinità e la persecuzione della setta cristiana, così codificate dalla tradizione più che dalla storia, sono evocate da allusioni a un indefinito totalitarismo novecentesco, fra potere militare, casta sacerdotale locale, popolo omologato e indottrinato, “diversi” guardati con sospetto. Ancora una volta, tutto chiaro, ben curato, ma privo di quella scintilla che illumini la lettura, avvinca l’attenzione, renda lo spettacolo indimenticabile e leghi tutte le soluzioni in un’eguale forza comunicativa (non scandalizza ma nemmeno ci persuade della sua necessità la danza dei soldati con le donne armene durante quello che dovrebbe essere il coro sacerdotale nell’aria di Callistene).

Si leggono volentieri (per chi conosca l’inglese, il francese o il tedesco) le note di Roger Parker e l’intervista alla regista, mentre stupisce l’assenza di una qualsivoglia lista delle tracce e dei numeri musicali. Siamo invece ormai rassegnati alla mancanza di sottotitoli in italiano, casomai qualcuno, madrelingua o meno, avesse la curiosità di seguire l’opera consultando il testo originale e non una traduzione (per non parlare dei contenuti speciali, con interviste e dietro le quinte). 


 

 

 
 
 

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