L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Siena, mantra di Stockhausen

Mantra, con lo spirito di un bambino

 di Roberta Pedrotti

In una suggestiva due giorni che accosta Stockhausen a Bach, il Chigiana International Festival and Accademy (già Settimane musicali senesi) propone un'eccellente esecuzione di Mantra del primo, che ci rammenta l'attualità e i legami con il passato di un compositore storico da approcciare e apprezzare senza preconcetti.

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SIENA, 23 luglio 2016 - Non esiste una vera ragione storica per definire ancora Karlheinz Stockhausen un autore di musica contemporanea. È morto nel 2007, nove anni fa, e nessuno nel 1910 si sarebbe mai messo a parlare di Verdi come di un autore contemporaneo alla stregua di viventi come Stravinskij, Strauss o Puccini. Se il suo arco compositivo copre oltre cinquant'anni e giunge fino agli ultimi mesi, Mantra, l'opera eseguita a Siena in quest'occasione, risale al 1970, quarantasei anni fa, all'incirca lo stesso tempo che separa la prima di Rigoletto da quella della Bohème, i cui spettatori consideravano già ben storicizzata la trilogia verdiana. Se poi per certuni, con aria di sospetto e diffidenza, Stockhausen (e con lui Nono, Berio, Boulez...) sarà sempre “contemporaneo”, dipenderà in buona parta dalla scarsa frequentazione del repertorio del primo e del secondo Novecento nelle nostre istituzioni musicali, dalla poca dimestichezza che resta radicata in parte del pubblico. Dipenderà dall'accezione negativa e tendenziosa attribuita all'aggettivo.

In realtà, però, Stockhausen è contemporaneo, ma nella misura in cui lo sono pressoché tutti i grandi compositori: lo è stato nel suo tempo, che ha interpretato e con il quale ha dialogato, merita un approccio sempre rinnovato, aperto, diretto e curioso da parte dei posteri. Merita di essere sempre contemporaneo, ma come lo meritano Monteverdi e Bach, Mozart e Beethoven, Rossini e Schubert, Brahms e Verdi. Nessuno di loro dovrebbe ingiallire in un rassicurante e decorativo quadretto, tutti, in ogni concerto o rappresentazione operistica, dovrebbero spingerci a pensarli e ripensarli in modo critico.

D'altra parte, già solo nell'organico di Mantra, cosa vediamo di così strano e avveniristico? Forse il pianoforte dotato di una buona serie di cimbali, di xilofono e abbinato a modulatore ad anello suona come una sperimentazione tutta novecentesca. Eppure la tastiera d'organo o di clavicembalo è sempre stata oggetto di elaborazioni con applicazioni e registri differenti, pratica che si è diffusa anche nei primi tempi del pianoforte, con strumenti (detti o meno fortepiani) sovente fantasiosi: Rossini, per esempio, ne possedeva uno dotato di un campanello per il quale compose l'aria da camera Il fanciullo smarrito (eseguita su pianoforti ordinari con un tintinnio simulato da un'acciaccatura). Wagner ideò personalmente le tube (in realtà della famiglia dei corni) che portano il suo nome e Stockhausen stesso studiò strumenti d'elaborazione elettronica del suono, questione che richiede, a ben guardare, un approccio filologico non differente da quello per la musica barocca: la ricostruzione di archi e fiati seicenteschi è importante, per la riproposizione delle partiture di Monteverdi o Cavalli, non meno che la consapevolezza e il recupero di una tecnologia che, pur anagraficamente molto più recente, ci appare altrettanto, se non addirittura più, remota.

Stockhausen che non è più fisicamente nostro contemporaneo, che fa parte di un secondo Novecento storicamente compiuto, è contemporaneo e attuale in quanto artista, in quanto parte di una storia creativa che solo l'interprete inerte e l'ascoltatore acritico e abitudinario allontanano come ostica, remota, inaccessibile o incapace di comunicare a noi e ai nostri tempi. Non per nulla la programmazione dell'Accademia Chigiana per l'estate 2016 privilegia proprio il secondo Novecento, guarda con attenzione a questi primi anni del XXI secolo, ma accoglie anche Bach e lo accosta, in due giornate consecutive, a Stockhausen. E a Mantra di Stockhausen, una partitura che reinventa radicalmente il concetto di tema e variazioni, forte dell'esperienza precedente dell'alea (ovvero dell'opera in cui un margine di casualità esecutiva è concesso all'esecutore di volta in volta) e soprattutto delle varie forme di serialità. Si parte da una sequenza di tredici suoni e, in una successione scandita dal tintinnare dei cimbali, la si fa pulsare, crescendo e diminuendo nei tempi, nelle altezze, in un'elaborazione che, oltre all'elettronica, comprende anche l'utilizzo di percussioni e della voce stessa dei pianisti – a tutti gli effetti polistrumentisti. Dunque, di tema e variazioni propriamente detti non si può parlare, ma di una diversa soluzione ed elaborazione del lavoro su un'idea musicale, su un motivo. Insomma, una diversa visione di uno dei principali fili conduttori dell'ars musica, di una delle basi strutturali della composizione senza confini temporali né geografici, comune in Oriente e Occidente.

Ecco dunque che Mantra richiede all'ascolto concentrazione e partecipazione attiva, ma non è, in realtà, di per sé particolarmente ostico, stravagante, astruso. Impone una riflessione, lavora profondamente su principi matematici, ma anche in questo discende da una florida e gloriosa tradizione che da Pitagora passa almeno per tutti i grandi polifonisti e contrappuntisti: per apprezzare Mantra basta, insomma, predisporsi a mente aperta e senza pregiudizi sulla musica degli ultimi decenni, prendendo esempio, magari, da un bimbo orientale che ha seguito l'intero concerto in un palco accanto alla madre. Attentissima lei, con cali e picchi di partecipazione lui, com'è anche naturale per l'età, ma capace di accennare gesti danzanti, di accompagnare con le mani alcuni momenti come un piccolo direttore o ulteriore esecutore, di abbandonarsi rilassato sulla poltrona, di applaudire con entusiasmo al termine.

Quest'entusiasmo è tutto da condividere e dava sfogo all'inevitabile empatia con le due straordinarie interpreti Stefania Redaelli e Maria Grazia Bellocchio, nelle quali non si sa se ammirare di più la dedizione, l'energia fisica e mentale necessarie per sostenere un tale impegno per tutta la sua durata di oltre un'ora, l'affiatamento, la precisione, la versatilità tecnica. L'esperienza sonora, così, è anche fisica, il lavoro sul timbro, sul tempo, sulle più minute gradazioni del suono non è solo un esercizio intellettuale, ma anche concretamente spaziale, corporeo, immanente. All'amplificazione di questa immanenza in dimensioni inaccessibili allo strumento tradizionale e possibili solo tramite la tecnologia elettronica e informatica che realizza l'elaborazione matematica più complessa concorre il contributo fondamentale di Alvise Vidolin, regista del suono a capo di una squadra affiatata, entusiasta e preparatissima di studenti del corso di Musica elettronica dell'Accademia Chigiana. Nulla di meglio per integrare didattica e attività concertistica, a cui si combinano anche gli incontri nelle antiche corsie dell'ospedale di Santa Maria della Scala - oggi complesso museale d'avanguardia - per la presentazione e l'approfondimento dei vari appuntamenti chigiani.

Il teatro dei Rozzi, a due passi da Piazza del Campo, abbraccia nel suo impianto all'italiana del primo Novecento il suono naturale e tecnologicamente 'potenziato' in modo quasi affettuoso, grazie anche all'amplificazione – richiesta e necessaria in partitura – assai ben calibrata. Platea e palchi non saranno affollati come non mai, ma di certo concentrati e motivati in massimo grado.  

foto Roberto Testi


 

 

 
 
 

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