L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

tonino battista

Nelle pieghe dello spazio

 di Roberta Pedrotti

Bel concerto diretto da Tonino Battista al Teatro Comunale per il festival Bologna Modern. In programma anche una prima assoluta di Paolo Perezzani, un cui altro lavoro aveva debuttato tempo addietro con Claudio Abbado nella rassegna Wien Modern, ideale ispiratrice di quella felsinea.

BOLOGNA, 22 ottobre 2016 - Si avvia alla chiusura la prima edizione di Bologna Modern, e lo fa in bellezza con un ultimo appuntamento sinfonico prima dell’effettivo epilogo all’insegna del jazz. Bel programma eterogeneo ma assai ben assortito attorno a una prima assoluta che ha acceso la sala: è vero che difficilmente, specie all’inizio di una nuova avventura, la musica contemporanea arriva a muovere le folle, ma, anche se l’affollamento non è quello suscitato da Mozart o Beethoven, trovarsi fra volti attenti e soddisfatti, specie di fronte alla scoperta, è una sensazione appagante.

La novità ha un titolo che potrebbe mettere in sospetto, con quell’ambizione poetica decisamente rischiosa: Pieghe, dilatazioni ed altre dismisure dell’Aperto. Eppure Paolo Perezzani ci dimostra nel concreto del suo pezzo che ha ragione lui, che quel nome rappresenta esattamente una partitura ben articolata, d’indubbia difficoltà e di una vitalità che non teme di coinvolgere il pubblico con un pizzico di teatralissima esuberanza. Sì, perché l’Aperto evocato nel titolo indica l’intero spazio teatrale fisicamente agito dai musicisti, non solo dislocati, oltre che sulla scena, nei palchi, in platea e nei corridoi, ma anche invitati a muoversi nel corso dell’esecuzione, a cambiar posizione, lasciare improvvisamente la collocazione abituale per scendere fra il pubblico e offrire una nuova spazialità del suono. Il gioco prospettico rinnova invenzioni passate, come le cornette da postiglione in quinta o lo scatto in piedi dei corni voluti da Mahler, c’è un pizzico di divertimento, ma con un retrogusto amaro se si associa l’immagine degli strumentisti che lasciano il palco con i timori di “declassamento” legati all’approvazione, il 7 agosto, della legge 160.

Al di là di un’evidenza teatrale comunque indissolubilmente legata alla scrittura musicale ed espressa anche in un gioco di luci rigorosamente scandito in diverse gradazioni, il pezzo di Perezzani appare come una sorta di felliniana “prova d’orchestra” in cui l’esplorazione sonora delle possibilità anche non convenzionali degli strumenti si abbina a sospiri e zittii fino a coagularsi in improvvise epifanie di frasi dal disegno classicissimo. Tutto in un effettivo sondare le pieghe del suono, dilatarne i dettagli, viverli nello spazio.

Questo pezzo ben scritto, meditato nel dettaglio e apprezzabile non solo nella speculazione intellettuale, ma anche in un franco coinvolgimento sensoriale, è stato diretto con l’indispensabile, concentratissima precisione Tonino Battista, altro ottimo specialista del repertorio contemporaneo, e ha ribadito lo splendido lavoro svolto dall’orchestra bolognese nel repertorio contemporaneo.

Attorno alla novità di Perezzani, espressa commissione del Comunale di Bologna, il programma spaziava attraverso l’ultimo secolo da un capo all’altro del mondo nell’esplorazione delle pieghe e delle dilatazioni del suono orchestrale.

Aveva aperto la serata Giacinto Scelsi, fondamentale e discusso patriarca delle avanguardie in Italia, con il pulsante fremito ciclico del suo Chukrum per orchestra d’archi; gli ha risposto, con una singolare affinità d’atmosfera, la Meditation di Toshio Hosokawa (classe 1955, coetaneo di Perezzani), che proprio sul tappeto mobile e mutevole, sul frinire o sull’ondeggiare degli archi, scandisce impasti di legni e percussioni che rammentano la tradizione nipponica, il moto del teatro tradizionale ma anche echi bellici ed esplosioni.

Suggestioni ataviche, arcane per quanto geograficamente più prossime a noi, innervano anche Nodas di Franco Oppo (scomparso all’inizio di quest’anno, erano in sala la moglie e la figlia): le cellule motiviche tradizionali del titolo si ripetono e concatenano con modalità minimaliste in un flusso continuo affettuosamente ispirato. Sempre allo scandaglio delle pieghe del suono con attenzione minimalista è dedicato l’ultimo brano in programma, Common Tones in Simple Time di John Adams, cui si riconosce il valore di alfiere del movimento per la capacità di sviluppare l’accumulo dell’identico nello scintillìo iridescente di un ciclico rinnovarsi d’energia, crescendo e diminuendo, elementarità e complessità.

Il pubblico gradisce e premia meritatamente tutti gli interpreti. E se non ci saranno le sirene del grande repertorio a riempire la sala, serate come questa ricordano che la missione culturale di un teatro da tutelare è proprio quella di variegare l’offerta con continuo stimoli, di rischiare, inciampare e rialzarsi, senza dover inseguire l’idolo del botteghino. In teatro c’è e ci deve essere spazio per tutta l’arte, per quella che già sappiamo di amare e per quella da scoprire.


 

 

 
 
 

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