L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Aziz Shokhakimov

Echi dell'Est

 di Roberta Pedrotti

Sergej Krylov sostituisce in extremis Stefan Isserlis come solista e nel cambio di programma splende soprattutto il suo violino. La bacchetta di Aziz Shokhakimov, viceversa, convince maggiormente nella Seconda Sinfonia di Chačaturjan. In apertura il Coro del Comunale era intervenuto sulle note di Poulenc.

BOLOGNA, 29 novembre 2016 - Sembra una girandola di sostituzione in cui gli artisti sembrano inseguirsi, perdersi e ritrovarsi nelle stagioni sinfoniche del Teatro Comunale. Poco più di un anno fa Aziz Shokhakimov, indisposto, cedeva la bacchetta a Nikolaj Znaider per un concerto con solista Sergej Krylov [leggi la recensione]. Oggi, sul podio sempre il maestro uzbeko, ad ammalarsi è il violoncellista Stefan Isserlis e a sostituirlo, ricomponendo la coppia sfumata nel 2015, arriva il violino proprio di Krylov.

Salva la situazione da par suo con il concerto di Čajkovskij (quello previsto per violoncello era, invece, di Prokof’ev), al quale presta l'abile chiaroscuro di un virtuosismo agrodolce, che sa ben calibrare il melos della Canzonetta e i guizzi gitani del finale, articolando con intelligenza l'affermazione e lo sviluppo dei temi, sempre fluido ed esatto nel fraseggio. Purtroppo nel dialogo del singolo con la collettività strumentale, l'orchestra sembra arrancare un tantino, talora greve nell'incedere, talaltra un po' troppo slentata, nell'agogica e nell'accento, rispetto al passo di Krylov, che soprattutto nel terzo movimento sembra quasi dover trascinare i colleghi. Nei bis paganiniani, poi, il violinista moscovita ha campo libero per delineare la musicalità scaltrita nell'impeccabile virtuosismo, fra gli applausi del pubblico.

Se l'orchestra e la bacchetta sembrano non essersi assestati al meglio nel concerto di Čajkovskij inserito in extremis e retto dal pur eccellente solista, le cose vanno decisamente meglio con il resto del programma, aperto con la partecipazione del coro nella cantata Sécheresses di Francis Poulenc, pezzo d'indubbia suggestione per il quale sovverrebbero come termini di paragone Stravinskij e Orff, se non incalzasse un certo senso di colpa nel profilare il povero francese come non più di un epigono. L'autore dei Dialogues des Carmélites meriterebbe d'essere più conosciuto ed eseguito nella sua individualità, anche se è indubbio il suo appartenere al suo tempo anche nella comunanza di linguaggio con illustri colleghi, la cui influenza non si può negare. L'esecuzione è salda e ben curata, ma spiace che un testo poetico surrealista raro e particolare come quello di Edward James – che le note di sala avvicinano all'estetica di Dalì o Tanguy – non sia stato messo a disposizione del pubblico. Anche in quese piccole cose si avvertono gli effetti deleteri della crisi sulla cultura: senza scialare in volumi lussuosi, sarebbe davvero costato così tanto inserire nel fascicoletto – gratuito, gran pregio – una pagina in più con i testi cantati e relativa traduzione? Evidentemente sì. Peccato.

La seconda parte del concerto è consacrata alla seconda sinfonia, La campana, di Aram Il'ič Chačaturjan, composta per la chiusura delle celebrazioni dei venticinque anni dalla Rivoluzione d'Ottobre, fra i fuochi della Seconda Guerra mondiale, pochi mesi dopo la vittoria sovietica di Stalingrado sui nazisti. Il carattere epico, gli aromi slavi in cui si fondono, nella nuova unità nazionale, le radici armene dell'autore con le tradizioni russe e delle altre repubbliche dell'URSS, l'affermazione potente degli ottoni, delle percussioni (le solenni campane cui deve il soprannome), degli archi gravi si sposano all'inquietudine di un tono cupo, in cui si profilano tutte le ombre dei tempi di guerra. La celebrazione non nega il momento in cui si svolge, è forte, orgogliosa, ma non festosa e trionfante, e pare volgere un pensiero alle vittime, agli incerti bellici, alle difficoltà e agli orrori. Shokhakimov si dimostra particolarmente a suo agio in questo linguaggio e offre una delle sue più convincenti prove sinfoniche, cogliendo il giusto equilibrio fra il sincero intento celebrativo e la non meno franca consapevolezza del clima fosco del conflitto. L'orchestrazione di Chačaturjan esalterebbe le peculiarità delle grandi orchestre dell'Est, massime ex sovietiche, che hanno i loro punti di forza proprio nell'impasto dei registri più gravi e nel colore incomparabile di ottoni eccellenti; ancor più, dunque, va lodato l'impegno del complesso felsineo, avvezzo ad altri equilibri e altre esigenze, nel renderne l'impatto al meglio delle proprie possibilità. Forse ci si sarebbe potuti aspettere dal pubblico un po' più di calore dopo l'imponente finale, ma il concerto si chiude comunque nell'apprezzamento generale dopo i dubbi serpeggiati in sala per Čajkovskij e mitigati dall'entusiasmo per il solista.  


 

 

 
 
 

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