L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Turandot alla Wiener Staatsoper

Speranza, Sangue, Turandot

 di Andrea R. G. Pedrotti

L'attesa première della nuova produzione di Turandot alla Wiener Staatsoper ha proprio nella messa in scena di Marco Arturo Marelli un punto di forza con il suo gioco intelligente sui simboli e la crudeltà della fiaba. Accanto alla protagonista Lise Lindstrom si fanno apprezzare Yusif Eyvazov (Calaf) e Anita Hartig (Liù), mentre meno sfumata appare la prova di Gustavo Dudamel, esordiente sul podio del teatro viennese.

VIENNA, 28 aprile 2016 - Quando si decide di assistere a una Turandot, bisogna aver presente che si tratta di una fiaba con tutte le caratteristiche precipue del genere, non nel senso buonista tramandato nell’ultimo quarto di secolo. Le fiabe (quelle vere) sono, probabilmente, fra i generi letterari più sanguinari e truculenti e si prefissano un fine educativo che consenta di meglio comprendere determinati caratteri umani attraverso l’esaltazione quasi caricaturale degli stessi, inserita in un’atmosfera di leggenda.

Il mistero dell’Oriente, il principe, gli enigmi, il palazzo dorato: in Turandot c’è tutto, ma ciò che manca è un senso (foss’anche di dissennatezza singola) nell’evoluzione psicologica e di interazione fra i due protagonisti. All’interno della nuova produzione a firma di Marco Arturo Marelli alla Wiener Staatsoper, con rigorosa fedeltà al testo, troviamo una fiaba precisa e una consecutio drammaturgica ottenuta mediante semplici effetti visivi di grande interesse ed efficacia.

Le prime note paiono provenire da un carillon invisibile, posto in una camera dai volumi irregolari e dallo scarno arredamento. D’impatto sembrerebbe di trovarsi innanzi alla soffitta di La Bohème o alla stanza ove Bastian si ritrova a leggere una fantastiche vicende di fantasia nel libro Die unendliche Geschichte (La storia infinita) di Michael Ende.

In effetti i contorni della scenografia sono degli orientali cortinaggi da letto e molti dei protagonisti vivono le vicende sotto delle coperte. Ping, Pong e Pang, infatti, talvolta vestono dei begli abiti Belle Époque, talvolta si pongono dei colorati panni sul capo, quasi a nascondersi. Il coro è posizionato sul fondo, assiso su una sorta di platea con le file mobili, anch’essi in abiti ascrivibili ai primissimi anni dell’Ottocento; commenta le vicende o ne è partecipe, attraverso il canto e una mimica che ben accompagna la musica. Non si tartta sempre azzimati borghesi, ma diviene il popolo di Pechino senza che sia necessario alcun cambio di costume, poiché l'incarnato muta e si fa orientale grazie a un abile utilizzo delle luci, a cura dello stesso regista. Nel finale la la cangiante massa corale partecipa attivamente agli sponsali di Calaf e Turandot, ponendosi in alternanza di genere e abito di nozze.

Turandot diviene personaggio compiuto, grazie al collegamento cromatico fra i suoi abiti e le risposte agli indovinelli che ella stessa propone: “Speranza”, “Sangue” e “Turandot”. La principessa cinese appare fuoriuscendo dai cortinaggi laterali, vestita d’azzurro, colore freddoche ben si addice alla “principessa di gelo”, la speranza è quella dei pretendenti, che periscono fra flotti di sangue, ma il rosso non è solo la tinta del plasma che scorre dopo un decesso, ma anche quello della passione. Alle risposte di Calaf, infatti, la donna perde la veste, che diviene purpurea. Deve emergere la vera Turandot, non quella celata dall’apparenza di un macabro puntiglio, legato a vicende familiari, delle quali ella non può nemmeno esser stata testimone. Turandot grida, non è convinta, la vera cattiveria è celata dalla pacatezza. Serve altro sangue e lo offre un’altra donna, che (e lo vedremo poi) dimostra ben più carattere di Turandot, se si legge la vicenda con attenzione. La principessa è velata e a lutto per il commuovente sacrificio di Liù e si scioglie fra le braccia dello spavaldo Calaf. È il terzo indovinello, appare Turandot nella sua vera natura di donna, con la veste bianca.

Il personaggio più interessante è, tuttavia, la piccola Liù. La giovane è inizialmente vestita in modo anonimo, con uno scialle grigio sulle spalle, è timida e affettuosa con Timur e affettivamente fedele a Calaf. Osserva tutto sul palco, comprende quanto l’irruenza irresponsabile dell’amato sia negativa e decide di porvi rimedio con il suo equilibrio e il suo sentimento. Splendida l’idea di chiudere il II atto con Liù a brandire il ferro che le sarà fatale, poiché la sua lungimiranza le fa comprendere anche la totale assenza di scrupoli di Ping, Pong e Pang. Nasconde il pugnale dietro la schiena, conscia che presto dovrà usarlo su se stessa per far salva la vita a Calaf, prima di voltarsi verso il pubblico, con le spalle alla scena e l’elsa già poggiata sul petto. Anche lei sarà di bianco vestita nell’atto sacrificale, con un rivolo rosso all’altezza dello sterno, ancor prima di vibrare il fendente che porrà fine alla sua vita.

Al solito interessantissimi personaggi si rivelano Ping, Pong e Pang, ancor più subdoli del consueto. Essi sono abbigliati da eleganti borghesi degli anni che furono. Il terzetto delle maschere, “Olà Pang! Olà Pong!” è ambientato in una sorta di laboratorio artigianale, nello stile di Jack lo squartatore, ma con la perizia di quello del dottor Jekyll. Numerosi cilindri sugli scaffali e i tre cortigiani, nel riporre il capo del principe di Persia, nel mostrarne il macabro contenuto, ossia le teste di tutti i numerosi pretendenti di Turandot. È originale anche l’idea di non proporre le solite cortigiane per la seduzione del principe misterioso, al fine di scoprirne il nome, ma l’apparizione di tre fanciulle (non molto accondiscendenti), buttate addosso a Calaf, quasi fossero pezzi carne senza vita, a riprova della meschinità di Ping, Pong e Pang.

È difficile immaginare che Calaf ami Turandot solo avendone sentito parlare, o avendola intravista. Molto più probabile che il suo scellerato egotismo virile lo conduca a vincere una sfida, ossia conquistare una donna che sembrava irraggiungibile, mettendo a grave repentaglio la sua vita, quella del padre e provocando lo struggente sacrificio di Liù.

Più consueti gli altri personaggi, con il solo Altoum, molto invecchiato e chiamato a un canto che ne sottolinei la vetustà, speranzoso che Calaf sappia guarire il furore sanguinario della figlia.

Per il resto c’è tutto quello che una Turandot richiede, con funamboli, effetti spettacolari e la scintillante cote ad affilare la feral lama.

Lise Lindstrom è una Turandot efficace scenicamente, anche se non ineccepibile sul piano vocale, soprattutto nell’estremo acuto, registro in cui il suono diviene un po’ troppo fisso. Nel complesso, tuttavia, la sua è una prestazione di buon livello, considerata la difficoltà, in questo momento storico, di reperire un soprano adatto alle caratteristiche della principessa orientale.

Felice debutto alla Wiener Staatsoper per Yusif Eyvazov, che – dopo la Cavalleria rusticana veronese [leggi la recensione]-, troviamo migliorato tecnicamente. Il cantabile è morbido, il fraseggio curato e, quel che è più importante, la passionalità permane immutata. Suo il merito di uno dei momenti più commoventi della serata, ossia l’esecuzione di un “Non piangere, Liù!” per il quale abbiamo stentato a trattener le lacrime. Belli anche i passaggi che richiedano squillo e potenza vocale, anche se le note maggiormente positive sono giunte dalle mezzevoci e dagli accenti sfumanti.

Ottima anche la Liù di un’eccellente Anita Hartig, reduce dalla recente esperienza al Metropolitan di New York. Artista amatissima dal pubblico emoziona per l’abilità scenica e per il carisma, dando raffinato risalto alle caratteristiche caratteriali di Liù con una mimica naturalmente ineccepibile, tanto da focalizzare interamente su di sé l’attenzione nel finale del II atto, quando non è chiamata a cimenti vocali. Il soprano romeno esce vincitore anche musicalmente, grazie a un’emissione morbida, una proiezione ineccepibile e un ottimo fraseggio. Eccellente la sua esecuzione della celeberrima aria “Tu che di gel sei cinta!”, ove la giovinetta palesa, una volta di più, la sensibilità del suo animo, che si fa acume nel profetizzare il sentimento che avvincerà la crudele rivale. Al termine dell’opera Anita Hartig otterrà un’autentica ovazione da parte dei presenti, entusiasmati dalla sua prestazione.

La compagnia di canto era completata da Heinz Zednik (Altoum), Dan Paul Dumitrescu (Timur), Paolo Rumetz (Mandarino), Gabriel Bermúdez (PIng), Carlos Osuna (Pang), Norbert Ernst (Pong) e da Won Cheol Song (il principe di Persia).

Qualche perplessità sulla concertazione di Gustavo Dudamel, al debutto nel massimo teatro viennese, il quale legge la partitura pucciniana con grande impeto e passionalità latino-americana, ma difetta di fraseggio e introspezione, limitandosi a una direzione che non vede sfumature orchestrali oltre il mezzoforte, insistendo sul forte e il fortissimo. Di contro notiamo una buona simbiosi fra buca e palcoscenico, sebbene la sua bacchetta risulti poco conforme all’idea registica.

Al solito perfetta l’orchestra della Wiener Staatsoper, che non perde il corpo della sua sonorità unica nemmeno quando venga chiamata a interpretazione particolarmente impetuose. Tutte le sezioni sono eccezionali, ma ciò stupisce sempre è l’eccellenza degli ottoni, il cui suono non risulta mai sporco, ma sempre corposo ed efficace.

Medesimo discorso per l’insuperabile coro diretto da Thomas Lang, perfetto per unità, qualità degli artisti in tutti i registri, sia per quanto riguarda gli adulti, sia per le voci bianche.

L’intera parte visiva era a cura di Marco Arturo Marelli, fuorché per quanto riguarda i costumi di Dagmar e il video di Aron Kitzig.

La locandina riporta fedelmente anche i nomi delle altre maestranze impegnate, ossia la comparsa del principe di Persia (Werner Eske), le due ancelle (Seçil Ilker e Kaya Maria Last), il pagliaccio bianco che appare nel finale e in altri momenti dell’opera (Josef Borbely).

Altri artisti impegnati sono: Abdul Abikinder, Claudia Baricz, Julian Egermann, Werner Eske, Christian Forstel, Walter Holecek, Miriam Lechlech, Maria Moncheva, Cristoph Muchsel. Julia Katharina e Christina Zauner.

Al termine dell’opera sono da registrare numerosi dissensi all’indirizzo del direttore d’orchestra, provenienti da svariati settori della sala della Wiener Staatsoper.

foto (c) Wiener Staatsoper / Michael Pöhn


 

 

 
 
 

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