L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Teresa Iervolino, Mario cassi, paolo Bordogna, giorgio misseri

Per un Barbiere…aristofaneo!

 di Stefano Ceccarelli

Riproposizione dello spettacolo battezzato lo scorso anno, Il barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini alle Terme di Caracalla (allestimento dell’Opera di Roma) è un successo di pubblico. Nuovo il direttore, Yves Abel, e il cast, fra cui spiccano la Iervolino in Rosina, Bordogna in Don Bartolo e l’esuberante Berta della de la Peña. La regia di Lorenzo Mariani, già rodata lo scorso anno, scorre ancora bene, fa ridere ed è d’effetto: il suo gusto squisitamente aristofaneo, calato in comiche immagini da cinema hollywoodiano, con una spruzzata di sano nonsense, piace al pubblico, quello di massa dell’estate a Caracalla.

ROMA, 28 luglio 2016 – L’Opera di Roma, per la stagione estiva alla Terme di Caracalla, ha saggiamente pensato di riproporre due allestimenti battezzati in anni passati: il Barbiere di Lorenzo Mariani (2014) e la Butterfly di Ollé, quella avanguardistica in stile “La Fura dels Baus” (si legga la mia recensione dello spettacolo del 2015). Anzi: ci si augura riproponga sempre più spesso (magari sottoposti a labor limae) spettacoli di anni passati, anche lontani, della gloriosa tradizione del maggior teatro romano.

Il barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini è opera perfetta per riempire i teatri, soprattutto quelli estivi, all’aperto: e così è stato. Certo è anche, però, opera che meriterebbe un’acustica affatto migliore: le voci non sono emerse perfettamente, né tantomeno la ricchezza orchestrale – sono del resto note le annose problematiche acustiche di Caracalla. Il giudizio sulla parte vocale/strumentale sarà inevitabilmente sottomesso a un’impressione probabilmente parziale delle reali performances degli interpreti e dell’orchestra: ho cercato – per quanto possibile – di tenerne conto.

Vanno certo tributati complimenti al direttore d’orchestra Yves Abel. Nome internazionale, specializzato nel repertorio raro francese, Abel dà prova di leggere in maniera colta la partitura del Barbiere: e si sa quanto spesso si cada in volgarità esecutive in una partitura così delicata e celeberrima del repertorio comico rossiniano. Abel legge tutto con morbida levigatezza e frizzante senso del ritmo, proponendo un Rossini persino urbanamente levigato: la pulsione autenticamente rossiniana emerge ottimamente nella famosissima ouverture (già dell’Aureliano in Palmira), tutta salti, note puntate, guizzi, che Abel riesce a vivificare con un’agogica vigile negli staccati e nelle cerniere del brano; come pure nel noto temporale prima del finale. Non manca, il franco-canadese, di accompagnare degnamente le voci, di comunicare sempre col palco, di eseguire tutto bene, soprattutto i complessi concertati. Incomprensibile – a meno di un problema a me ignoto – il taglio di un’intera scena, il primo brevissimo intervento di Rosina e Bartolo sul balcone (I 3); peccato l’omissione dell’aria – quella, però, sovente tagliata, persino col beneplacito dell’autore – del Conte d’Almaviva «Cessa di più resistere» (II).

Giorgio Misseri canta il difficile ruolo del Conte d’Almaviva. Un tenore contraltino dalla voce quasi sempre molto alzata, in esecuzione di testa, in mezzo-falsetto (in stile Alva): si sente, quindi, oggettivamente poco in quelle condizioni. La cavatina, «Ecco ridente in cielo», non entusiasma; meglio fa nella canzone «Se il mio nome saper voi bramate», nei duetti e negli assiemi. Applaudito, non riesce comunque a convincermi appieno.

Florido vocalmente è il Don Bartolo di Paolo Bordogna, cantante autenticamente rossiniano, un basso/baritono buffo con voce tonda, piena, cantante: forse, anzi, troppo ‘giovane’ per un ruolo come quello di Don Bartolo. Porta a casa la singolare e pirotecnica aria «A un dottor della mia sorte» con talento e gusto; si distingue anche per notevoli doti istrioniche.

La Rosina di Teresa Iervolino è certamente il miglior carattere in scena, il meglio riuscito. Impressionante quanto l'artista si stia evolvendo nel gusto e nella perfezione del canto rossiniano, come pure nello studio della caratterizzazione dei personaggi. La sua Rosina è semplicemente perfetta: non parlo solo delle non comuni doti tecniche della Iervolino, la sua corda caldamente contraltile, le sue agilità pulitissime, la pienezza tripudiante degli armonici, il gusto sopraffino nel canto, ma anche dell’impressionante serie di variazioni e difficoltà che consciamente sceglie di introdurre nella sua parte (impressionanti quelle della cabaletta della sua nota cavatina), come non se ne sentono praticamente più sulla piazza, meritandosi di essere paragonata a cantanti del calibro della compianta Lucia Valentini Terrani e dell’insuperabile Marilyn Horne – la cui edizione Sony (1982) del Barbiere rimane, per questo aspetto almeno, realmente insuperata. Del resto, della sua recentissima Rosina al Costanzi si è parlato benissimo: «la sua voce corposa, salda, eburnea, dal nobile timbro contraltile, pastosa, ci regala una Rosina freschissima e vocalmente centrata» scrivevo nella mia recensione di quello spettacolo (leggi la recensione). La famosissima cavatina «Una voce poco fa» è l’emblema del canto di buon gusto rossiniano: sì, perché anche – anzi spesso soprattutto – nel Rossini comico bisogna mostrare realmente buon gusto. Rende indimenticabile l’attacco del duetto «Dunque io son… tu non m’inganni?» con Figaro; dà tutta sé stessa nell’aria paratragica «Contro un cor che accende amore». Un’interpretazione magnifica, che meriterebbe di essere eternata in un CD con un cast di primissimo livello mondiale.

Il Figaro di Mario Cassi non è da subito reattivo, dalla spumeggiante e celeberrima cavatina, «Largo al factotum», che canta sottotono – il pubblico infatti reagisce, a uno dei più riusciti coup de théâtre del pesarese, con un gentile quanto moscio applauso. Meglio nel duetto col Conte, «All’idea di quel metallo». Cassi ha una voce dal nòcciolo assai chiaro, pastosa, con bassi poco udibili ma fraseggio lesto e elegante: si distingue positivamente per taluni bei momenti rossiniani, ma la sua performance è giudicabile altalenante.

Don Basilio non poteva che essere Mikhail Korobeinikov, come oramai quasi sempre a Roma: porta a casa una buona serata, ma non entusiasma nell’aria «La calunnia è un venticello», che perlomeno non condisce di ovvietà vocali trite e ritrite.

Fra i comprimari brilla la Berta di Eleonora de la Peña che staglia una spassosissima Berta e fa faville vocalmente (grazie a una voce penetrante, intonatissima e argentina) nell’aria «Il vecchiotto cerca moglie».

Per la parte registica, non ho sostanzialmente mutato avviso rispetto a due anni fa: riporto quindi ciò che scrissi in quella recensione (leggi integralmente):

«Le scene (William Orlandi) e la regia (Lorenzo Mariani e Luciano Cannito) sono quanto di più singolare mi sia mai capitato di vedere a teatro. Il trend in voga è quello di rappresentare Il barbiere di Siviglia come fosse la tana del Bianconiglio: questa nuova edizione non fa eccezione, ma con alcuni tocchi che spaziano dal surrealismo al trash. I personaggi sono caratterizzati in maniera surreale, pirandelliana. Si cambiano spesso d’abito e assumono diverse ulteriori identità: il caso della Rosina-canarino (geniale!) è un esempio calzante. Le scene sono poverissime: una scritta che spesso s’illumina, “HOLLYWOOD”, fa da fondale al palco, dove si avvicendano nei diversi sketch insegne giganti da barbiere, sedie da barbiere classiche all’americana, una grossa gabbia, un gigantesco pianoforte e molte scale multicolore – va da sé che molto del materiale scenografico è trito e ritrito, ma per fortuna non usato banalmente. Si capisce che s’è in una sorta di set cinematografico o addirittura proprio in un film – del resto le continue citazioni o suggestioni filmografiche sono evidenti, una su tutte quella della celebre scena del pluripremiato I’m singing in the rain (1952) in cui Kelly canta sotto la pioggia, ripresa durante il temporale del II atto. Quindi, sono la recitazione dei cantanti e l’abilità del regista di muovere la macchina teatrale gli elementi che sorreggono la produzione. E se, ovviamente, non tutto è di qualità, alcune scene sono indimenticabili: l’aria di sortita di Rosina, in cui la ragazza è un canarino cullantesi in gabbia, una delle rappresentazioni più icastiche del supplizio cui la peperina è costretta dal suo tutore; la scena dell’aria di Don Bartolo, in cui entrano dei figuranti in costume da bagno e si dà inizio a quello che sembra un party a bordo piscina misto a una lezione di nuoto; o la fantasiosa resa dell’aria di Berta, in cui quella che dovrebbe essere una serva vecchia e rancida si trasforma in una soubrette da bourlesque, con tanto di spogliarello e piume di pavone; o il finale in cui Almaviva e Rosina sono sollevati su una gigantesca torta nuziale con tanto di coriandoli dorati sparsi per gli spalti e un happy ending anche per Don Bartolo, che si piglia una Berta svecchiata. Suggestioni sono tratte anche dai cartoons: si pensi ai poliziotti – che molto devono anche a Charlie Chaplin – del coro. Insomma un cocktail dell’assurdo, che rimescola figure e personaggi famosi (Almaviva, per esempio, ha molto, specialmente nella prima scena, di Frank Sinatra, con uno smoking strassato). I costumi (Silvia Aymonino) sono di buona fattura […]. Singolare è la rappresentazione dell’ouverture, che presenta una sorta di toga-party, finito con l’arrivo della polizia, che ci potrebbe aprire uno spiraglio esegetico: tutta l’opera è un nonsense generato proprio da diversi spettacoli che si sovrappongono in un set. I figurati, acrobati e ballerini, sono tutti bravissimi».

Mi sento di aggiungere semplicemente quanto aristofaneo sia un tale approccio concettuale a una regia rossiniana: le metafore che paratatticamente si alternano sul palco – con un sistema a scatole cinesi, per cui la successione delle immagini non strettamente risponde a una stretta idea logica – sembrano uscite dal proteiforme ingegno del padre del teatro comico occidentale, l’ateniese Aristofane. Applausi per tutti suggellano una felice produzione.

foto Yasuko Kageyama


 

 

 
 
 

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