L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Alceste di Gluck a Innsbruck

Alceste nell’Età dei Lumi

  di Francesco Lora

In veste di fatto semiscenica, il capolavoro gluckiano è spettacolo di punta del Festival di Musica antica di Innsbruck: se la concertazione di Jacobs è rivelatoria, secondo previsione, la compagnia di canto risulta piuttosto disomogenea per scuola, materiale e attitudini individuali.

INNSBRUCK, 23 agosto 2016 – Poche sovrane hanno portato il ruolo di sposa e madre con orgoglio maggiore di quello dell’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo. Il suo legame con la città di Innsbruck si fece tanto più profondo quando, nel 1765, vi morì all’improvviso l’adorato marito Francesco Stefano: la camera del defunto fu trasformata in cappella e la sua veste da camera in paramenti liturgici, ricamati dall’augusta vedova in persona. Senza una tale biografia, vissuta come apoteosi del matrimonio, non avrebbero avuto pari significato e patrocinio i due capolavori della riforma del melodramma, come attuata da Ranieri de’ Calzabigi e Christoph Willibald Gluck: Orfeo ed Euridice, dedicata all’imperatore, è la storia dello sposo che sfida gli inferi per riportare in vita la consorte; Alceste, dedicata all’imperatrice, è la storia della consorte che si offre agli inferi per conservare in vita lo sposo.

Rappresentata per la prima volta a Vienna nel 1767, l’opera speculare è anche un parallelo della virtuosa disposizione d’animo di Maria Teresa al capezzale del marito agonizzante. Ricca di riferimenti, o almeno di pregnanza, è dunque l’esecuzione dell’Alceste come spettacolo di punta del 40o Festival di Musica antica di Innsbruck, il 23 agosto nella sala grande del Palazzo dei Congressi. Esecuzione e non rappresentazione: le recite con scene e costumi si sono svolte dal 12 al 28 agosto alla Ruhrtriennale, mentre al festival tirolese è stata concessa una serata intermedia e solamente concertistica; con sorpresa, però: non si sa quanto riprendendo dalla regìa predisposta a Bochum da Johan Simons, anche a Innsbruck gli artisti hanno cantato a memoria, senza leggii, aggirandosi tra l’orchestra con un impegno fisico non meno che scenico e attoriale.

La maggior attenzione cade sulla lettura musicale di René Jacobs, un direttore con la vocazione del bastian contrario, capace di ribaltare, in nome ora della filologia, ora del senso pratico, ora dell’inventiva, l’esperienza d’ascolto dei capolavori musicali. Manco a dirlo, la sua Alceste è condivisibile non in ogni scelta interpretativa, ma fissa il più alto indirizzo esegetico mai riscontrato nella tradizione esecutiva. Permane a tutt’oggi, anche in aria di prassi antica e strumenti originali, una visione del Gluck riformatore attraverso i poderosi e allentati turgori del Wagner alla Furtwängler o alla Knappertsbusch: il preteso fil rouge che legherebbe i due compositori costringe per paradosso l’anteriore all’assetto tradizionale del posteriore. Jacobs rifiuta di prendere posizione: ignora semplicemente il problema. Legge la partitura per ciò che è nella poetica dell’Età dei Lumi, preservando la grazia e il bouquet dei passi in stile galante, e facendo erompere i fulmini lucenti e tonanti dello Sturm und Drang.

Mai si è ascoltata in età contemporanea un’Alceste più sollecita e scattante, più direzionata nelle sue frasi musicali e più incisiva in quelle verbali. Il mero svolgimento del testo a mo’ di arazzo musealizzato cede così a un’analisi ove ogni cellula dà adito a un pensiero interpretativo, complici la sferzante B’Rock Orchestra e il duttilissimo coro Musicaeterna Perm. Benvenuto è anche l'inserimento, per moderare e impreziosire la corsa al finale lieto, di una splendida coppia di passacaille e chaconne dovute a Josef Starzer, collega di Gluck nel contesto viennese: i due brani, con organico strumentale coincidente a quello ricchissimo di Alceste, vanno a incorniciare il coro che omaggia insieme la mitica regina di Fere e l'imperatrice Maria Teresa. Le mende si trovano solo là ove ha luogo l’horror vacui: un fortepiano accompagnatore giustamente ripristinato a improvvisare la propria parte sulla scorta di quella dei bassi e di quelle superiori, ma sopra le righe nella licenza di diminuzioni; ovvero l’ultima ripresa del ritornello «Piangi, o patria, o Tessaglia!», qui tolta al coro principale e a quello in eco, per essere riaffidata alle voci sole di Evandro e Aspasia (un arbitrio che invalida la colossale architettura eretta dagli autori).

Piuttosto disomogenea la compagnia di canto, per scuola, materiale e attitudini individuali; con un grave limite nell’impaccio di quasi tutti i vocalisti alle prese con la prosodia italiana: si coglie la loro conoscenza approssimativa della situazione teatrale, si coglie che qualcuno li ha invitati a porre in evidenza questa o quella parola, si coglie però la mancanza di autonomia intellettuale di fronte al discorso intero. In virtù o in vizio di ciò, il soprano norvegese Birgitte Christensen si comporta da statuaria valchiria in sedicesimo: ha smalto da vendere, estensione facile, risonanza ostentata, e si assesta comodamente sul lato patetico e accalorato – ma in ciò retoricamente uniforme e matronale – del personaggio protagonista. Come Admeto le si affianca il tenore britannico Thomas Walker, con una studiata eleganza del porgere, una qualità timbrica non comune nei suoi connazionali e un ammirevole dominio dell’alta tessitura.

Funzionale e non molto di più, invece, risulta l’Ismene del mezzosoprano svedese Kristina Hammarström: l’arido timbro e il corpo flebile tarpano il volo a intenzioni pur ottime. Si sconfina nell’imbarazzo di fronte al baritono austriaco Georg Nigl, tanto più poiché recato in mano dalla critica musicale germanofona; gli sono qui affidate, tutte insieme, le parti di Apollo, del Gran Sacerdote, del Banditore e dell’Oracolo; egli le calligrafa alla maniera tipica di una Liederabend: ascesa al registro acuto sbiancata in languorosi, compiaciuti ed esangui falsetti, sillabe fatte rintoccare una dopo l’altra come fossero entità autonome, realizzazione letterale e quasi onomatopeica della parola nel canto, con ogni motto temibile tradotto in digrignanti attacchi rabbiosi; invenzioni che nel canto all’italiana, però, non hanno – né devono avere – cittadinanza veruna.

Il riscatto di tutto si ha con gli artisti che restano. Nel soprano Alicia Amo, spagnola, albeggiano la scorrevole naturalezza espositiva, l’immediata cordialità timbrica e la scontata proprietà tecnica delle voci latine; spiace solo che sia affiancata, a lei che tiene la parte di Aspasia, la voce bianca di Joshua Kranefeld nei panni del fratello Eumelo: ancora una volta, la simpatia e l’impegno del piccolo interprete tradiscono un’impostazione ben lontana da quella del belcanto all’italiana. E non stupisce così che il migliore tra tutti, per un’impietosa lezione di arte oratoria applicata a ogni momento della parte sua, sia l’italianissimo tenore Anicio Zorzi Giustiniani come Evandro: egli non attua mai un cenno di troppo né ambisce a eccedere il ruolo di comprimario; eppure ciascuna frase trova e muta in sé peso, colori, accento, quantità, con un’esattezza fonetica e una verità comunicativa impensabili senza aver assimilato il suono e il ritmo di una civiltà. In lui v’è l’ingrediente che conta: e dove di più, se non in Gluck?

 


 

 

 
 
 

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