L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Francisco Brito e Giuseppina Piunti

Il primo canto di Nina

di Roberta Pedrotti

Nel bicentenario della morte di Paisiello, il Festival a lui dedicato a Taranto propone l'interessantissimo recupero della prima versione in un atto di Nina, o sia la pazza per amore, nell'edizione critica di Lucio Tufano. Nel cast s'impone il tenore Francisco Brito, mentre delude la protagonista, Giuseppina Piunti.

TARANTO, 12 settembre 2016 - I mostri dell'Ilva protendono le loro braccia d'acciaio all'orizzonte, ma le due colonne doriche alle porte del centro restano a baluardo della bellezza forte e antica della città, i confini di un altro mondo. Non troppo distante c'è il MARTA, il Museo ARcheologico di TAranto, e non visitarlo sarebbe un delitto, non solo per pezzi formidabili come lo Zeus di Ugento, la testa di donna o l'oreficeria, non solo per le opere statuarie e vascolari, o per i mosaici, ma anche per il panorama impagabile sull'oggettistica quotidiana, dagli schiaccianoci ai giocattoli. Oltre le colonne doriche, invece, si penetra nella Taranto vecchia, giù giù fino allo splendido Duomo di San Cataldo, con il suo impianto bizantino, la sorprendente cappella barocca ellittica, la cripta di rara suggestione. E il fonte dove, lo ricorda un'epigrafe, nel 1740 fu battezzato Giovanni Paisiello; proprio per lui, nel bicentenario della morte, siamo giunti nella città pugliese che dal 2003 lo onora con un festival.

Nel cortile del Museo Diocesano si dà la Nina, o sia la pazza per amore, uno dei titoli più noti del genius loci, ma quale non s'intendeva dal 1789. Infatti, dopo il debutto a San Leucio per la visita della regina Maria Carolina e una manciata di recite napoletane, eco del successo del debutto d'occasione, già alla ripresa dell'anno successivo Paisiello ampliò la partitura a due atti dall'unico originario, conferendole la struttura a tutt'oggi consueta.

In buona sostanza, la “comédie en un acte en prose melée d'ariettes” Nina ou La folle par amour di Benoît-Joseph Marsollier de Vivetières, con musiche di Nicolas Dalayrac, viene tradotta in italiano da Giuseppe Carpani (passato alla storia, oltre che come librettista, per le celeberrime “lettere” Haydniane e Rossiniane) e ritoccata da Giambattista Lorenzi per esser rimessa in musica da Paisiello. La forma francese dell'opèra-comique, con i parlati in luogo dei recitativi secchi, permane sia nella prima stesura sia in quella ampliata, secondo il gusto della terra d'origine della casa reale borbonica, ma anche in affinità con una consuetudine teatrale partenopea di lungo corso, se si pensa che ancora nel XIX secolo commedie di Rossini e Donizetti andranno in scena in revisioni che sostituiscono la prosa al recitativo. In partitura si aggiunge un'aria per il buffo Giorgio, “Eccellenza: allegramente”, simmetrica a quella del primo atto, in chiusura del quale Paisiello compone il quartetto “Come! Ohimè! Partir degg'io”, con l'inserimento di un personaggio inserito ex novo: si tratta del Pastore (affidato al grande baritenore Giacomo David, padre del celeberrimo contraltino Giovanni e primo interprete anche di Lindoro nella Nina in due atti), chiamato a intonare anche la deliziosa “Già il sol si cela” accompagnato dalla zampogna, sviluppando così il breve, ma suggestivo, richiamo strumentale nella scena IX della prima stesura.

Come giustamente sottolinea Lucio Tufano, encomiabile curatore dell'edizione critica della riscoperta Ur-Nina, non si tratta di discutere della superiorità di una delle due versioni, né tantomeno di stabilirne la legittimità, quanto di conoscere due volti differenti del capolavoro di Paisiello, non solo esempio eccelso del nuovo realismo sentimentale di genere larmoyant (nonché borghese, essendo la piccola nobiltà di Nina e del Conte suo padre assai poco coturnata) e di una sensibilità di marca rousseauviana, ma anche modello formidabile, nell'articolazione di canto, declamato, parlato, delle grandi scene di follia a venire nell'Ottocento romantico. Elemento questo che, in un'azione condensata attorno al vaneggiare e rinsavire della protagonista pressoché senza deviazioni, emerge con particolare intensità nell'essenziale procedere dell'atto unico, quasi nel ritmo dell'elegia, così differente dall'incalzare, di lì a pochi anni, delle farse rossiniane.

L'occasione di apprezzare dal vivo questa questa versione è più ghiotta che mai e non si può non rendere merito incondizionato all'iniziativa del Festival tarantino. È evidente con quanta passione ci si ingegni per far di necessità virtù e dare il meglio con pochi mezzi a disposizione. Sul podio Giovanni Di Stefano, dal 2005 più volte impegnato in questi lidi, si prodiga con dedizione per trarre un suono compatto e levigato dall'orchestra da camera del Festival, cosa non scontata per un ensemble che si riunisce appositamente per l'occasione, tantopiù in uno spazio aperto, dall'acustica soddisfacente ma in condizioni, ovviamente, non ottimali.

Il desiderio di ottenere il massimo rendimento con mezzi minimi è palese anche nel lavoro della regista Stefania Panighini, giovane già con qualche significativa esperienza all'attivo, ma, purtroppo, è in agguato la trappola della ridondanza, particolarmente insidiosa quando si ambisca a compensare i limiti tecnici di uno spazio non teatrale e di scarse risorse economiche. I migliori ingredienti, tuttavia, non è detto che assieme compongano il miglior piatto e troppi sapori, quand'anche prelibati, possono soddisfare il palato meno di una ben meditata semplicità. La Paneghini fa proliferare prologhi, con la proiezione video di un Paisiello in abiti settecenteschi che attraversa l'odierno centro di Taranto prima di prender posto in sala e, di seguito, l'esecuzione della – splendida, è vero, ma quanto giova, nella prima ripresa della versione in un atto, anteporre il più celebre brano composto per quella in due atti? – melodia del Pastore accompagnata dalla zampogna a turbare la mente di Nina. Abbiamo poi abusatissimi doppi bambini dei due innamorati, una scena a metà simbolica (una Luna di pietra su un campo di papaveri) metà realistica (il palazzo del conte), il diario della protagonista e immense pile di libri che potrebbero far pensare o a un taccuino freudiano, o alle follie letterarie di un Don Chisciotte (e la mente corre alla Romaziera e l'uomo nero di Donizetti…), o alle fantasie deluse di una Madame Bovary. L'azione ora appare coregrafata, ora surreale, nella prospettiva di Nina, ora realistica, ma nessuna linea concettuale sembra svilupparsi pienamente. Concentrandosi su una chiave di lettura più essenziale e sulla recitazione degli interpreti siamo certi che Stefania Paneghini avrebbe sortito un risultato di ben altro livello anche nel medesimo contesto.

Contesto nel quale s'impone il tenore Francisco Brito, giovane non ignoto alle scene italiane, già altre volte apprezzato per la disinvoltura teatrale, la personalità vivace capace di conferire energia al fraseggio senza mai forzare lo stile. In quest'occasione la tessitura non iperurania di Lindoro gli giova, così come gli si confà la scrittura di Paisiello, sicché apprezziamo anche una delle sue migliori prove anche dal punto di vista strettamente vocale, franca, sicura, ben rifinita.

Andrea Vincenzo Bonsignore, parimenti giovane e ascoltato in altre occasioni, è un Giorgio dalla verve ben calibratae, così come si apprezza l'eleganza di Rocco Cavalluzzi, il meno esperto della compagnia. Tornava invece al Festival dopo Le finte contesse del 2011 Maria Luisa Casali, accorata interprete della governante Susanna, titolare della bella aria “Per l'amata padroncina”.

In un atto o due, però, Nina, o sia la pazza per amore ruota tutta intorno alla protagonista, tant'è vero che la persistenza del titolo nel repertorio o, quantomeno, nell'immaginario è inevitabilmente legata alla presenza di una grande primadonna: Giuditta Pasta nel XIX secolo, negli ultimi anni Anna Caterina Antonacci o Cecilia Bartoli. Purtroppo Giuseppina Piunti risulta impari alla sfida: non le basta, infatti, possedere l'estensione ambigua fra il soprano e il mezzo (distinzioni oziose, in effetti, quando applicate a questo repertorio) richiesta dalla parte, se il canto risulta affaticato, incostante nel sostegno sovente appannato, sì da non poter rendere la screziata poesia, gli incanti onirici e le ombre interiori di Nina. È indubbio anche l'impegno come attrice, ma l'anelito non fa scoccare la scintilla del genio: pensando alla contessina pazza per amore non si può non ricorrere alle tinte con cui un innamorato dell'opera italiana come Stendhal dipinge la tenerezza amorosa di un “coeur de seize ans”, e non si può non pensare a personaggi in bilico fra immaturità adolescenziale e l'orrore della tragedia, come Mathilde de la Mole, dal salotto del padre marchese al bacio estremo alla testa mozza di Julien Sorel, o Clelia Conti, dall'innocente infatuazione alla relazione clandestina e alla morte del figlio. Dopotutto, ignorando la salvezza dell'amato, è l'ombra del sangue di Lindoro dalla quale fugge la mente di Nina, alla ricerca di una via di fuga da un non meno fosco abisso. Il rifugio del canto in cui il tempo si sospende in un'eterna, solitaria attesa è il non-luogo in cui la mente di Nina si potrebbe perdere se, con finezza psicologica affatto moderna, il filo dalla memoria offerto dal giovane non la riportasse alla luce. Purtroppo la buona volontà non basta a rendere un personaggio che andrebbe, dunque, interpretato – nella parola cantata come in quella parlata – con superiore finezza e profondità, forti di uno strumento ben altrimenti saldo nella gestione tecnica e nella forma vocale. Peccato davvero considerato che la Piuti era la cantante più esperta del cast ci si sarebbe aspettato di più, mentre ci troviamo a dire che con un'altra protagonista avremmo goduto di una serata davvero da incorniciare alla riscoperta di quest'altra faccia della Nina pazza per amore. Ci auguriamo, allora, che l'esempio tarantino faccia scuola – tantopiù che la versione in un atto può essere agilmente allestita con un dispiego di mezzi assai limitato  - e che l'opera torni un po' più spesso sulle scene, ché, in entrambe le stesure, val proprio la pena di ascoltarla e riascoltarla.

Alla prima, comunque, il successo è caloroso per tutti gli interpreti, compresi gli otto membri del coro del Festival, di cui la locandina purtroppo tace il nome del maestro.

foto Carmine La Fratta


 

 

 
 
 

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