L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

anna caterina antonacci e piotr beczala in werther

Werther di chiarezza e bellezza

 di Francesco Lora

Lo spettacolo con regìa di Willy Decker riconferma la sua eterna giovinezza al Gran Teatre del Liceu: lì si compenetra con la concertazione di Alain Altinoglu e vanta una compagnia di canto dominata da un vigoroso Piotr Beczała e da un’irraggiungibile Anna Caterina Antonacci.

BARCELLONA, 31 gennaio 2017 – È tempo di Werther, programmato in questi mesi non solo in un alto numero di teatri di prima importanza, ma anche convogliandovi risorse artistiche di particolare valore. E mentre nel capolavoro di Jules Massenet si impegnano le bacchette di Michele Mariotti, Cornelius Meister e Omer Meir Wellber, o le voci di Joyce DiDonato, Juan Diego Flórez e Ludovic Tézier, un allestimento scenico creato nel 1996 per Francoforte e girato per mezza Europa – due anni fa al Teatro dell’Opera di Roma [leggi la recensione] – arriva al Gran Teatre del Liceu di Barcellona e vi riconferma la sua eterna giovinezza: regìa di Willy Decker ripresa da Stefan Heinrichs, scene e costumi di Wolfgang Gussmann, luci di Hans Toelstede, ben quattordici recite dal 15 gennaio al 4 febbraio. Uno spettacolo con il dono della chiarezza: non v’è scelta teatrale che si opponga alla drammaturgia originale, ma rimane spazio soltanto per il gesto, il concetto o l’immagine che giovino alla comprensione degli avvenimenti e alla rivelazione dei profili psicologici. Uno spettacolo con il dono della rifinitezza: persino l’invadente e decorativa coppia di amici del Podestà, Schmidt e Johann, viene investita di un impegnativo gioco coreografico e del significato di accompagnare come deus ex machina i dolori del protagonista. Uno spettacolo con il dono della bellezza: se ne ha certezza quando, nella contrastante dicromia di blu prussiano e giallo tuorlo, tra un villaggio in miniatura e un muro che scorre e chiude la via di fuga, l’occhio si fa avido persino delle ombre in uscita dalle quinte.

La lettura musicale non fa la voce grossa al cospetto di tanto, ma sembra entrare docilmente e con naturalezza nel teatro che insegna. Così, la concertazione di Alain Altinoglu lascia al ricordo soprattutto il genuino respiro dell’orchestra sinfonica catalana, la quale ha solidità tecnica da grande compagine internazionale unita alla peculiare ariosità e cantabilità delle sorelle latine e italiane in particolare. Accanto a essa, impressionano per festosa preparazione tecnica le voci bianche degli Amics de la Unió di Granollers.

Se si deve indicare un punto debole, lo si trova proprio in chi tiene la parte protagonistica, Piotr Beczała, a proposito di un’emissione ingolata che gli preclude lo squillo, di una caratterizzazione più monotona e grigia che da Sturm und Drang, nonché di una pronuncia del francese povera di grazie e insensibile alla e muta. Ma anch’egli ha doti rare nel panorama odierno, in primis il vigoroso spessore che lo apparenta al creatore della parte (Ernest van Dyck, tenore tutt’altro che leggero, esperto in Wagner) e gli consente di esprimersi in scala con la poderosa strumentazione massenetiana. Al suo fianco v’è la più studiata e ispirata Charlotte oggi alle scene, Anna Caterina Antonacci, agiata in una tessitura che ne premia il corposo registro centrale e il dolente calore timbrico. Il lavoro sul carattere, con la parola e nella corporeità è il solito capolavoro: da una parte si vede la donna che Charlotte ha deciso di essere, quella perentoria della promessa e del devoir, recitata con la forbitezza classica di chi ha addosso le eroine gluckiane; dall’altra si scioglie via via la Charlotte reale e censurata a sé stessa, non più eroica ma adolescenziale, imprevedibile e contraddittoria, disperata tra solitudine e dissimulazione, impacciata e insieme charmante nel peculiare rotacismo fonetico che l’Antonacci le attribuisce.

Esemplare è l’Albert di Joan Martín-Royo, baritono di fitta carriera spagnola e francese, sia per proprietà di canto, sia per due caratteristiche del personaggio di norma neglette e da lui ripristinate: una, prescritta, è la giovinezza che lo accomuna con minimo scarto d’età a Charlotte e a Werther; l’altra, additata da Decker, è la lampante codardia borghese che lo fa abbaiare ma non mordere, e che nel finale dell’opera autorizza il progresso morale di Charlotte. Eccelle anche la luminosa e squillante Sophie di Elena Sancho Pereg, giovane soprano con una cospicua gavetta nei teatri minori tedeschi e ora affatto degno di questo debutto al Liceu, del successo personale e di nuovi lusinghieri sviluppi. Un poco sfocato nei meri suoni, il basso Stefano Palatchi è comunque un Podestà impeccabile per disinvoltura scenica ed estrosità di fraseggio. Il tenore Antoni Comas, come Schmidt, e il baritono Marc Canturri, come Johann, porgono i loro interventi con una tale miscela di brillantezza e sarcasmo da rendere preziosi quei momenti in apparenza superflui. Tutto concorre a illustrare di quale salute artistica, con questo spettacolo di ordinaria memorabilità, goda oggi più che mai la gran scena di Barcellona. 

foto Antoni Bofill


 

 

 
 
 

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