L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Elvio di martino e Gergely Madaras

Tre fanti e una regina

 di Alberto Ponti

In una foresta di suoni lussureggianti emerge l'asciutta astrazione del Concerto per fagotto della Gubajdulina

TORINO 10 febbraio 2017 - Caratteristica niente affatto scontata anche quando si ha a che fare con composizioni degli ultimi decenni, il secondo appuntamento di Rai NuovaMusica 2017, tenutosi venerdì 10 febbraio all'auditorium 'Toscanini', è per il momento l'unico della stagione (ma destinato a rimanere tale) con un programma di soli autori viventi, dal momento che negli altri concerti della rassegna Niccolò Castiglioni, Gérard Grisey, Giovanni Salviucci ed Edgar Varése, tutti scomparsi da tempo più o meno lungo, contribuiscono, all'interno di palinsesti con alcune deviazioni dalla stretta contemporaneità, a cementare il primato di questa serata.

Tre pagine per grande orchestra tutte assai differenti l'una dall'altra incorniciavano l'esteso Concerto per fagotto e archi gravi (1975) di Sofija Gubajdulina (1931), dall'organico assai più ridotto (oltre al solista, quattro violoncelli e tre contrabbassi) ma fortemente esplorativo delle infinite possibilità tecniche ed espressive di ogni singolo strumento utilizzato.

Elvio Di Martino, prima parte dell'Orchestra Sinfonica Nazionale, ha affrontato con la giusta concentrazione un pezzo di enorme impegno, premiato con applausi scroscianti dai circa trecento ascoltatori presenti in platea, soprattutto nella cadenza che costituisce l'intero quarto movimento, sui cinque in cui è articolata l'opera, integralmente bissata alla fine dell'esecuzione.

Brandelli di arpeggi ripetuti in modo meccanico ed ossessionante come angoscianti domande che non trovano risposta, suoni strozzati ripresi nel caos organizzato dei colpi d'arco dei contrabbassi, in tempo volutamente scoordinato, fruscii dei violoncelli nel registro acuto a soffocare con esibito sarcasmo gli esili tentativi di un discorso drammatico del fagotto con la citazione delle note introduttive della Patetica di Čajkovskij sono tutti elementi che inseriscono questo capolavoro nella scia della grande musica russa, con espliciti rimandi a Šostakovič nella rappresentazione quasi teatrale di un insanabile conflitto destinato a spegnersi solo con la sconfitta del protagonista impersonato dal solista.

Al pari della compositrice originaria del Tatarstan, annoverata tra i massimi musicisti viventi, nemmeno l'ungherese Peter Eӧtvӧs (1944) può dirsi una sorpresa, essendo l'autore di un vasto repertorio, soprattutto operistico, eseguito con successo in tutto il mondo. A un certo cosmopolitismo era in effetti improntato il brano di apertura, The Gliding of the Eagle in the Skies (2011/2016), composto per il 30° anniversario della fondazione dell'Orchestra dei Paesi Baschi, con l'utilizzo in partitura di due cajón, percussioni da strada di origine latinoamericana. Nonostante la scrittura impeccabile di uno dei massimi maestri dell'orchestrazione contemporanea e l'attenta direzione del giovane connazionale Gergely Madaras, il brano non va quasi mai al di là dell'occasione celebrativa e soffre di una certa mancanza di profondità espressiva perfino nei passaggi più meditativi e sussurrati, contrapposti con calcolata abilità ai crescendo smaglianti che mettono in luce la capacità dell'Orchestra Sinfonica Nazionale di porsi come riferimento anche nell'esecuzione del repertorio contemporaneo, oggetto di recenti incisioni, tra le altre, di Battistelli, Ivan Fedele, Gervasoni e Solbiati.

A compositori dell'ultima generazione era invece dedicata la seconda parte, con due prime esecuzioni italiane. Tocar y Luchar (2010/2012) di Dai Fujikura (1977), nativo di Osaka ma attivo da molti anni nel Regno Unito, è stato una piacevole scoperta. Composto per la venezuelana Orquesta Simón Bolivár, il breve pezzo, che dimostra un'accesa coerenza formale e momenti di vera ispirazione timbrica, si configura come una statica riflessione su filamenti di note singole, talvolta increspate da fugaci accenni contrappuntistici, salvo accendersi all'improvviso in un fragoroso episodio di arcaico sapore percussivo (con tanto di archetti battuti sul leggio), prima del ritorno alla calma iniziale.

Assai più ambizioso era il conclusivo Isolarion: Rituals of Resonance (2012/2013) del britannico Christian Mason, classe 1984. Ispirato a un termine della cartografia antica, a sua volta preso in prestito dallo scrittore James Attlee per definire la sua esplorazione in una strada di Oxford che fornisce il pretesto letterario per una musica di notevole complessità armonica, questa sorta di poema sinfonico in tre parti andrebbe riascoltato con attenzione seguendo la partitura scaricabile dal sito Internet dell'autore per coglierne a fondo le indubbie sottigliezze. Al primo ascolto si fa in ogni caso strada il dubbio che la pletora dei mezzi utilizzati veicoli un messaggio musicale assai lineare, a senso unico e privo di reali risonanze interiori.

Madaras, coetaneo di Mason, dimostra una confidenza innata con questo repertorio. L'entusiasmo del pubblico torinese (composto quasi esclusivamente da giovanissimi e da anziani, come se le persone in età lavorativa debbano prestare attenzione ad altro che la musica contemporanea) alla fine è tutto per lui, coraggioso esploratore di nuovi mondi sonori, che sa illuminare con fascino e convinzione. 


 

 

 
 
 

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