L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

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Maya e Meryt

Così lontani, così vicini

 di Roberta Pedrotti

 

Ci sono ancora due settimane prima della chiusura della mostra Egitto. Splendore millenario al Museo Civico Archeologico di Bologna e vale davvero la pena di approfittarne per chi non abbia  ancora avuto occasione di visitare l'esposizione dei capolavori delle collezioni locali accostate a opere provenienti con il gemellato Museo Nazionale di Antichità di Leiden, in Olanda, potrà approfittarne fino al 17 luglio.

Il fascino universale della civiltà dei faraoni è sempre un asso nella manica fin troppo facile da sfoderare, meno scontato condurre i visitatori alla scoperta di una diversa prospettiva, quella della vita. Eppure, fin dalle prime sale, si è subito conquistati, più ancora che dall'oggettiva bellezza di tante opere esposte, dalla capacità dell'allestimento di andare oltre allo stereotipo cristallizzato nell'arte funebre. È vero che quel che ci rimane è prevalentemente quel che veniva conservato nelle tombe, nei corredi funerari, nei sepolcri, ma questi oggetti e queste immagini sono proiettate verso un aldilà concretissimo, specchio di un aldiquà più sensuale e meno ieratico di quanto non si sia abituati a immaginare. Nei rilievi vediamo riprodotte con fedeltà tavole imbandite con frutta d'ogni sorta, succosi cosciotti, pesce, selvaggina: ogni ben di dio a farci sorridere pensando quanto gli antichi egiziani dovessero amare la vita e godersela appieno. Certo, non tutti, ma rispetto ad altri popoli antichi, la divisione in caste era comunque meno marcata e il benessere più diffuso, se si pensa anche al fatto che il sistema di opere pubbliche mantenesse una folta schiera di operai specializzati, ingegneri, carpentieri la cui professionalità era ben riconosciuta, organizzata in strutture simili a cooperative che giunsero, in caso di necessità, perfino a indire veri e propri scioperi. Una teocrazia retta da un monarca assoluto, formalmente; nei fatti una società complessa, mobile, che poteva offrire ampie possibilità di carriera anche agli artisti, come testimoniano numerosi reperti raffiguranti musicisti sovente ascesi a cariche di tutto rispetto.

Esistevano i poveri, i diseredati, i proletari e i mendicanti, ma l'oggettistica finissima ci ricorda come il benessere non fosse prerogativa di una ristretta cerchia di dignitari e alto clero stretti attorno alla famiglia reale. Ci ricorda quanta vita, quanto colore, quanto gusto animasse il modus vivendi dell'antico Egitto.

Lo vediamo nella ritrattistica: val la pena di soffermarsi a osservare ogni volto, ogni tratto fisico, anche nei rilievi che sembrerebbero a uno sguardo superficiale rispondere a schemi prestabiliti. Siamo abituati a pensare l'arte egiziana come ieratica e imperturbabile con la prepotente eccezione del realismo esploso nel regno di Akhnaten, a testimoniare la poca avvenenza di lui e delle figlie contrapposta allo splendore della regina Nefertiti. Invece, con occhio attento e libero da pregiudizi, ecco che compaiono sorrisi maliziosi, gesti affettuosi, pinguedini indolenti, un sapido sguardo mediterraneo che ci ricorda come questi uomini e queste donne siano molto più vicini a noi dei rigidi profili dell'immaginario comune.

Nell'odierno dibattito sull'omogenitorialità si fa notare, poi, la naturalezza del gruppo scultoreo di Meretites e di suo figlio Khennu (V dinastia, 2504-2347 a.c. Saqqara, museo di Leiden) in cui il ragazzo è affiancato da due madri, che poi sono uno sdoppiamento della sola Meretites, supermamma mediterranea dalla personalità così preponderante da raffigurarsi nelle vesti di entrambi i genitori e da offrirci il gusto di un modernissimo ritratto di famiglia riaffiorato dalla notte dei tempi. Che poi il padre di Khennu fosse ignoto, defunto o soltanto ininfluente cambia poco: le storie di donne che emergono da questi reperti sono storie di affermazione professionale e familiare, storie impensabili nell'Atene democratica dove Aspasia era un'eccezione che non avrebbe mai potuto integrarsi in una vita familiare ritenuta regolare e rispettabile.

Lo splendido gruppo scultoreo di Maya e Meryt, tesoriere e cantante alla corte di Tutankamon, ci mostra proprio una felice coppia in carriera, con piena realizzazione di entrambi gli sposi, ritratti con pari dignità, con orgoglio e affetto, testimonianza di una felicità che doveva risplendere anche nei colori vivaci di cui resta ancora qualche traccia sul calcare bianco. Non si smetterebbe mai di guardarli, di ammirare i dettagli delle loro vesti, dei monili, delle acconciature, la cura con cui sono ritratti i volti: due manufatti splendidi, ma anche due volti da guardare negli occhi per sentirsi raccontare, in silenzio, una storia quotidiana, come quelle che ci raccontano, nei corredi funebri, i piccoli birrai, fornai, tessitori operosi che avrebbero dovuto garantire ogni bene paradisiaco al defunto senza la preoccupazione di doversi dar da fare in prima persona. Questo aldilà è davvero simile all'aldiquà se nulla è dovuto e conviene premunirsi di una buona servitù per non trovarsi a sgobbare per godersi i piaceri della vita (dopo la morte, accidentalmente). Intanto, le reti di turchesi, fini come modernissimi ricami di perline, avvolgono le salme imbalsamate con la stessa eleganza con cui lini e gioielli avevano drappeggiato i corpi vivi.

Alla quotidianità dalla storia dei singoli si affianca la Storia epica delle battaglie, e i rilievi della tomba di Horemheb, già generale di Tutankhamon e poi faraone a sua volta, ricordano le vittorie contro i nubiani. Impossibile, per l'appassionato d'opera, non riconoscere Amonasro fra i prigionieri dai tratti centrafricani prostrati ai piedi dei vincitori, ancora una volta ritratti con un estro – anche nella resa di abiti acconciature e monili – che va ben oltre una sommaria e stereotipata distinzione etnica fra egizi e nubiani.

Sono tutti uomini autentici quelli che sfilano in eterno a ricordare i trionfi di Horemheb, e uomini come loro sono quelli che hanno maneggiato gli utensili che si alternano nelle bacheche, e che servirono la cosmesi, la cucina, l'artigianato, lo svago o la superstizione: prima di lasciare il museo è bene scendere qualche gradino e non perdersi la collezione bolognese di antichi amuleti. Oggettini di consumo, più o meno rifiniti, tanto simili a cornetti e ciondoli diffusi ancor oggi, anche se – talora – più spavaldamente allusivi di quanto due millenni di tradizione cristiana non permettano.


 

 

 
 
 

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