L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Libera dai veli

di Roberta Pedrotti

Finalmente La favorite di Donizetti torna in scena in edizione critica e con un cast di primissimo ordine: l'inagurazione del festival Donizetti Opera appaga sotto ogni punto di vista.

BERGAMO, 18 novembre 2022 - Finalmente La favorite ha cominciato a circolare in Italia, seppur non senza fatica. Negli ultimi anni Palermo, Firenze e Venezia (e, andando un po' più indietro nel tempo, Bologna e già Bergamo) hanno riportato in scena il capolavoro di Donizetti, uno dei suoi massimi eppure misconosciuto e bistrattato per il suo essersi diffuso in una spuria alterazione che ne costringeva gran parte della musica su maldestri versi italiani e una trama reinventata e improponibile. Torna, dunque, pian piano in auge, anche se le proporzioni parigine e la presenza dei ballabili hanno sollecitato tagli e taglietti anche nelle riprese più avvertite. Il festival bergamasco mette le cose in ordine con l'edizione critica di Rebecca Harris-Warrick, non un punto fermo (stolto chi crede che la filologia sia materia di verità assolute e immutabili), ma fondamentale pietra miliare per comprendere La favorite e goderne.

Oltre all'esecuzione integrale del ballabili, l'apertura di Donizetti Opera 2022 permette per la prima volta di ascoltare la stretta del duetto fra Léonor e Alphonse, pagina in cui il re annuncia di voler ripudiare la regina in favore dell'amante, che reagisce atterrita. Al debutto fu considerata troppo esplicita, in un testo già scabroso per la denuncia delle ingerenze temporali della Chiesa, dell'ipocrisia del potere e del contrasto insanabile fra sacro e profano, pubblico e privato. Così, da un lato abbiamo corroborato lo sviluppo drammatico dall'altro abbiamo ripristinato un tassello fondamentale nell'equilibrio di forme quantomai duttili, che confermano come le strutture dell'opera ottocentesca (e non solo) non siano un codice irrigidito, ma una sintassi che il compositore e il librettista possono maneggiare con maggiore o minore abilità e libertà, in questo caso muovendosi disinvolti fra forme francesi (ravvisabili là dove si articolano forme strofiche, romanze e couplet) e italiane (la più classica scena, aria e cabaletta). E allora impressiona la progressiva, incalzante, sintesi dall'ampiezza dei primi due atti a quel finale sublime liberato da strafottenze sovracute per tornare a essere l'atterrita affermazione di un uomo annientato. La corte, la Chiesa, un mondo intero implode in quel semplicissimo “Et vous prierez pour moi demain”. Epilogo nel quale, peraltro, si era dipanata una drammaturgia musicale sopraffina, là dove l'invocazione della peccatrice redenta “Fernand! imite la clémence” prima contrasta poi si fonde con il risvegliarsi amoroso del novizio “Ses pleurs! Sa voix jadis si chère”; come non pensare a quel che sarà il rapporto melodico fra “Un dì, felice, eterea” e “Ah! Se ciò è ver, fuggitemi”? Come non pensare a quel che in Francia sarà questo chiasmo fra cortigiana santificata e religioso preda della tentazione, soprattutto nella Thaïs di Massenet?

Sul podio dell'orchestra Donizetti Opera, Riccardo Frizza concerta con totale dedizione a questa materia, concentrandosi sulla pregnanza drammaturgica delle sue forme, senza nulla concedere al vezzo decorativo, proteso a quel blocco finale che, fra terzo e soprattutto quarto atto, inchioda alla poltrona come uno dei maggiori drammi musicali del XIX secolo. È, poi, forte di un cast eccellente, per il quale giustamente si può affermare che in un festival come questo non si va solo per ascoltare rarità, versioni alternative e integrali, ma anche per ascoltare i migliori interpreti sulla piazza.

Eroina eponima, Annalisa Stroppa possiede il physique du rôle, ma soprattutto possiede l'intensità e la finezza di un canto che trova in “O, mon Fernand” e nella citata “Fernand! Imite la clémence” i suoi momenti più alti per la misura, l'intima comprensione, il calore di un timbro vellutato che non si esibisce ma si raccoglie in un pensiero teatrale e musicale. Davvero un debutto maiuscolo che fa il paio con la prova superlativa di Javier Camarena. Sarebbe facile esaltare il tenore messicano per lo splendore nell'acuto che lo ha consacrato divo internazionale con i do di Don Ramiro e Tonio: quel che si avverte in Camarena è, più della natura indubbiamente generosa, l'intelligente e costante consapevolezza dell'emissione. Non teme nemmeno un paio di suoni più ruvidi iscritti nel senso di un'espressività toccante che non trascende mai lo stile, anzi, dello stile si fa forza per non intaccare mai la purezza complessiva e l'esattezza della parola e della musicalità.  “Ange si pur”, la grande aria del quarto atto, pur essendo il brano più celebre della Favorite, sembra sorgere per la prima volta nel gioco di colori e dinamiche dipanato da Camarena, vero capolavoro d'artista. Artista che è anche ma non solo cantante formidabile nell'arco di tutta l'opera.

Terzo fra cotanto senno, Florian Sempey ha il vantaggio idiomatico del madrelingua e l'abilità di domare l'innata irruenza per rendere un Alphonse dagli istinti prepotenti ma frustrati e contenuti dalla ragion di Stato e dalla prepotenza papale. Sembra costringersi a mormorare indocile “dunque il trono dovrà piagar sempre all'altar”, mentre s'impone là dove gli è possibile.

Evgeny Stavinsky non è esattamente un basso profondo, ma il suo Balthazar si fa apprezzare per la pacata fermezza con cui si rapporta al recalcitrante e disperato novizio come al passionale sovrano senza ammettere repliche. Edoardo Milletti è un adeguato Don Gaspar, che qui si valorizza quale anima nera della corte, consigliere del re chiaramente legato al papato. Caterina Di Tonno, viceversa, è una Inès un po' pallidina in quella che dovrebbe essere la scintillante “Rayon doré, tiède zéphyre”. Un seigneur è Alessandro Battaglia, che proviene dalle fila (ben ordinate dal maestro Salvo Sgrò, ma un tantino esigue) del coro dell'Accademia della Scala con elementi del corrispettivo Donizetti Opera.

Alle prese con un dramma teso e profondo come quello della Favorite, Valentina Carrasco (scene di Carles Berga e Peter van Praet, costumi di Silvia Aymonino) concentra in maniera proficua le sue energie e una volta tanta non si incaponisce su un'idea che le impone un'estetica ma non trova sviluppo. Ecco invece una sobria teoria di letti che sono anche altari, i veli neri evocati da Lèonor che sono paramenti sacri, nuziali e funebri, grate e sbarre di clausura ma anche di costrizioni implicite. Ecco colori simbolici semplici ed efficaci (ancora il nero e il fucsia passione e peccato). Per i ballabili del secondo atto si coinvolge un bel gruppo di signore bergamasche in collaborazione con l'Assessorato alle politiche sociali e il coordinamento dei CTE, centri per tutte le età. Bella idea, che in teatro va a rappresentare un contraltare invecchiato delle fanciulle del corteggio di Léonor, l'incombere dei dì “quando le veneri il tempo avrà fugate” nella storia di tutte le favorite amate e abbandonate “quando poi fia bianco il crine”, nella solidarietà fra ricordo e presagio. Non potranno forse dirsi avvincentissime, data anche la durata dei ballabili, le coreografie di Massimiliano Volpini (avrebbe giovato, accanto alle signore, coinvolgimento anche di qualche professionista tersicoreo?), ma si tratta, comunque di note a margine che non inficiano uno spettacolo ben riuscito e la prova eccellente di un cast che ha saputo render giustizia sotto ogni punto di vista a un dramma in musica apparentemente fra i più celebri del suo tempo, ma ancora in attesa di pieno riscatto.

Meritatissimo il successo finale.

 

 

 
 
 

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