L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Sgorgate, lacrime amare

di Roberta Pedrotti

Al debutto alla Scala nella sala del Piermarini, dopo una collaborazione con il Mariinskij approdata però agli Arcimboldi, la prima versione di Boris Godunov inaugura la stagione 2022/23. Ildar Abdrazakov è un protagonista immenso in perfetta sintonia con la concertazione di Riccardo Chailly. In uno spettacolo che soddisfa e fa pensare, spicca la prova eccellente delle compagini corali scaligere.

MILANO, 7 dicembre 2022 - Il teatro e la musica prima di tutto, perché tutto è lì. Fra le memorie che porteremo con noi di una serata così densa – com'è sempre denso per natura il 7 dicembre scaligero, in cui anche la cornice diventa sostanza – domina lui, Boris Godunov, Ildar Abdrazakov, la musica di Musorgskij e il suo libretto da Puskin, la concertazione di Riccardo Chailly.

Non appena entra in scena, nel quadro dell'incoronazione, porta subito il carisma, la fierezza dello zar, la sua dimensione pubblica impeccabile, tutta d'un pezzo, da vero padre del popolo dietro la cui immagine ufficiale si cela un'umanità ben più complessa. Quando riappare, dopo l'intervallo, nella sala del Cremlino, Abdrazakov libera in un'unica, inesorabile arcata drammatica tutto quello che dell'uomo Boris le vesti dello zar avevano trattenuto e celato. L'affetto paterno trepido, autentico, l'angoscia, la rabbia, il desiderio e il peso del potere, e infine quell'ossessione ricorrente per lo zarevic assassinato che non si sa nemmeno se definire rimorso, sospetto introiettato o cos'altro. Il filo tesissimo dell'interpretazione di Abdrazakov non si muove per schemi, per affetti e contrasti determinati, ma su un crinale di sfumature e ambiguità, in un flusso di coscienza libero e soggiogante per la consistenza della parola scenica, per quei piani, quei sussurri che riempiono la sala e gelano l'anima. Misuratissimo, esatto, quasi chirurgico e magnetico, Ildar Abdrazakov inventa il vero dando voce, corpo, sguardo alla psiche di Boris Godunov e ci regala forse la sua migliore interpretazione, forse il miglior Boris possibile oggi. E, si badi bene, il superlativo relativo non vuole metterlo al riparo da confronti storici con i quali potrebbe tranquillamente misurarsi, ma vuole sottolineare la sintonia con la nostra sensibilità contemporanea.

Naturalmente, ciò non sarebbe possibile senza la sintonia anche con la bacchetta di Riccardo Chailly, che trova in Boris una delle partiture più congeniali. Quando si sottolinea il carattere asciutto e quasi spigoloso della stesura originale dell'opera – quella, cioè, che ascoltiamo stasera – rispetto alla revisione del 1872 e, massime, alle riorchestrazioni di Rimskij Korsakov e Šostakovič, si rischia di arrivare a pensarla esclusivamente come dura, ispida, mentre Chailly sa trarre dall'orchestra della Scala suoni di seta senza mai allentare la tensione, senza perdere coerenza fra atmosfere ombrose e sospese come quelle del monastero e la vivacità terragna della ballata di Varlaam, o nel comun denominatore della mancanza di speranza nei meccanismi eterni del popolo vessato e miserabile, della nobiltà immobile e intrigante, dei figli di Boris imprigionati nei loro ruoli con Ksenija vedova prematura del suo amato principe azzurro. Quando le campane risuonano funebri nel finale ecco che il colore, la fisicità cupa e petrosa che improvvisamente il suono acquisisce ci rimandano al corrispettivo nella scena dell'incoronazione. È il ciclo che si compie, un destino già scritto, o, meglio, un presagio, l'ingranaggio della storia e del potere che pervade il dramma di Boris e del popolo russo. Lo spirito analitico di Chailly scontorna a dovere i temi popolari, o comunque idiomatici, che permeano la scrittura di Musorgskij, ne fanno intendere il carattere strutturale e non decorativo, lo spirito che per il cittadino dell'impero zarista nel XIX secolo si identificava con una nazione, ma che oggi ci appare specchio di un mondo slavo più composito e variegato. Allora, non solo questo popolo ci racconta di tutti i popoli che hanno vissuto sotto gli zar o l'Unione sovietica, ma forse anche degli altri, anche di noi. Di certo, tanti elementi del libretto dello stesso Musorgskij presentano sfumature di critica che saranno sviluppate in satira o da Gogol o da Šostakovič, per far solo due nomi. E tante dinamiche drammaturgiche, nel ritrarre l'umanità di fronte alla storia e al potere, non sono forse affini a Verdi? Non solo al tanto citato Macbeth, ma anche a Don Carlo, a Simon Boccanegra, ai Due Foscari, alla Forza del destino (non a caso scritta per San Pietroburgo pochi anni d'anticipo rispetto alla stesura dell'Ur Boris)... Ufficialmente questa prima versione del 1869 (il prefisso tedesco Ur sta per originario) fu rigettata per una drammaturgia inedita che escludeva un intreccio romantico e la presenza di una parte femminile di rilievo. Nel 1872 si supplisce accrescendo la spettacolarità tradizionale con ampliamenti che noi occidentali potremmo essere tentati di definire grandoperistici e con l'inserimento della principessa polacca Marina; si adempirà così alle richieste, ma soprattutto si addolcirà in un più vasto romanzo storico lo spietato sguardo della prima versione sulla società russa, sul potere degli zar, sulle ingerenze e gli intrighi di clero e nobiltà, sulla sofferenza del popolo sobillato come strumento. L'opera russa per eccellenza non è esattamente tenera con sé stessa, anzi, è piuttosto sovversiva. Sovversiva anche nella musica, in quel canto così legato alla parola e all'anima popolare della melodia e dei modi slavi. Tutti elementi che Chailly rende benissimo, avvalendosi di un cast di prim'ordine, che non sfigura dietro un titanico Abdrazakov.

Se, a dire il vero, il Pimen di Ain Anger era parso un po' sottotono nel quadro del monastero, poi il suo racconto del miracolo dello zarevic taumaturgo raggiunge una toccante poesia e il suo porgere davvero mistico si contrappone perfettamente alla gaudente e ruvida irruenza del Varlaam di Stanislav Trofimov, accompagnato dal Misail di Alexander Kravets. Ottimo davvero, sempre a fuoco e incisivo, lo Ščelkalov di Alexey Markov e piacevolmente non caricaturale lo Šujskij di Norbert Ernst. Dmitry Golovnin rende bene la gioventù ambiziosa di Grigorij, il falso Dmitrij, ma ancor più colpisce la coppia dei figli di Boris, il Fëdor di Lilly Jørstad e la Ksenija di Anna Denisova, impeccabili per teatralità, espressione ed emissione. Schietta come si conviene l'ostessa di Maria Barakova, che completa il cast con la nutrice di Agnieszka Rehlis, la guardia di Oleg Budaratskiy, il Mitjucha di Roman Astakov, il Boiaro di Vassily Solodkyy. Lasciamo per ultimo l'Innocente di Yaroslav Abaimov, perché la sua scena non è solo cantata alla perfezione per il colore bianco ma non diafano, per il tono anodino ma non monotono, per il tratto infantile ma non stucchevole: è anche uno dei momenti chiave del disegno registico di Kasper Holten. Senza soluzione di continuità, infatti, la scena della cattedrale di San Basilio si salda a ciò che precede e che segue come una sorta di incubo di Boris, che dopo aver intimato di andarsene non al figlio o a Šujskij, bensì al fantasma dello zarevic Dmitrij Ivanovic, si trova circondato da bambini che replicano il principe ucciso, come lo stesso Innocente, ennesima voce dell'infanticidio passato che perseguita il nuovo sovrano. È questo, d'altra parte, il punto in cui la tragedia di Boris differisce dalla mitologia dei troni usurpati e del ripristino della legittima discendenza: nell'Orestea, in Semiramide, in Amleto o in Macbeth il re ucciso è adulto, si tratta di una successione violenta archetipica in molte culture e poi stigmatizzata. Boris invece sale al trono per la morte di un bambino. Non un regicidio ma un infanticidio gli dona la corona e ora minaccia i giovani principi. Muore un innocente e l'incubo si manifesta nel canto dell'Innocente, anche se la parola russa Юродивый (Jurodivyj) indica più esattamente una figura mistica di folle a cui è permesso dire la verità e cui si attribuiscono caratteri sacri e profetici e dunque si riprende anche una dimensione spirituale e sovrannaturale che si lega sia al delirio di Boris sia alla religiosità legittimista di Pimen. Questo momento è il cuore della seconda parte dello spettacolo, quella stessa in cui Abdrazakov è protagonista assoluto in complicità con Chailly e che sviluppa il piano psicologico esattamente come nella prima sia il concertatore sia Holten con i suoi collaboratori (Es Devlin per e scene, Ida Marie Ellekilde per i costumi, Jonas Bogh per le luci e Luke Halls per i video) avevano privilegiato la rievocazione e la memoria storica per quadri, capitoli degli annali compilati da Pimen. Il passaggio dalla cronaca all'introspezione avviene gradualmente, è ben preparato da opportuni riferimenti e risulta del tutto naturale, quasi necessario. L'unica cosa che si sarebbe potuta evitare è la coltellata che fa cadere Boris vittima di una congiura sotto lo sguardo irridente del falso Dmitrij: Abdrazakov ha interpretato la scena della morte a tali livelli che davvero non c'era bisogno di ulteriori sottolineature.

Questo dettaglio, però, non arriva a impensierirci mentre applaudiamo una delle più riuscite inaugurazioni scaligere degli ultimi anni, una di quelle serate che non solo scintillano di festa ed evento annunciato, ma regalano anche delle interpretazioni che restano scolpite nella memoria. Per Abdrazakov, per Chailly, ma anche per l'orchestra e soprattutto i cori del teatro: le voci bianche diretto da Bruno Casoni e gli adulti preparati da Alberto Malazzi offrono una prova superlativa, degna di quello che è il vero deuteragonista del Boris Godunov, il popolo. E allora, pensando al popolo e a tutte le problematiche che senza sconti l'opera di Musorsgkij mette in scena, possiamo anche pensare che oggi, checché qualcuno possa dirne, Boris Godunov, l'Ur Boris del 1869, sia l'opera giusta per chi è disposto a riflettere. Un'opera russa che racconta le contraddizioni, le crudeltà, le ingiustizie e le sofferenze della Russia, ma anche di tutto il mondo slavo, ma anche di tutto il mondo. E allora, come nella musica e sul palco l'incoronazione e la morte di Boris compie un ciclo, così in teatro i dodici minuti di acclamazioni finali sembrano ricongiungersi all'ovazione per il Presidente Mattarella, all'esecuzione a braccetto (data la presenza per la presenza anche di Ursula von der Leyen) del Canto degli italiani di Novaro e Mameli e del tema dell'Inno alla gioia (in origine, alla libertà) di Beethoven e Schiller, inni d'Italia e d'Europa per un teatro che sia luogo di pensiero, di interrogativi, di incontro, di dignità senza barriere.

 

 

 
 
 

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