L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Più forte del fato

di Roberta Pedrotti

Nonostante gli avvicendamenti di tre soprani nel ruolo eponimo, Norma al Teatro Grande di Brescia è un trionfo grazie alla concertazione di Alessandro Bonato, demiurgo di un meccanismo perfettamente oliato in cui spicca il felicissimo debutto di Martina Gresia nei panni della protagonista.

BRESCIA, 28 e 30 settembre, 2 ottobre 2022 - Norma fa paura, soprattutto ai grandi teatri, che forse temono di aver troppo da perdere. Forse in provincia si è costretti a rischiare, ma quando il rischio è ponderato, chi gioca bene le sue carte può far saltare il banco. È quello che è successo a Brescia, per la nuova produzione che ha aperto il cartellone del Grande per la stagione di OperaLombardia.

Addirittura, in questo caso, il coraggio della direzione artistica ha avuto la meglio dei tiri del Fato, che ha avvicendato ben tre interpreti della protagonista nelle tre recite bresciane (se si comprende anche l'anteprima riservata ai giovani). Il 28 settembre, infatti, era salita sul palco, di fronte alla platea degli studenti, la preannunciata Lidia Fridman (classe 1996), che ha destato interesse per il colore scuro della voce, la figura scenica affascinante, l'attitudine tragica e malinconica, ma si è anche mossa con una prudenza che, purtroppo, anticipava forse già l'indisposizione che l'ha costretta a ritirarsi prima della vera e propria prima. Ecco allora che il 30 settembre la stagione si inaugura con Martina Gresia (classe 1997), già prevista per alcune tappe della produzione, che dunque aveva provato al pari della collega (solo, con una diversa Adalgisa: Veta Pilipenko). Il debutto anticipato di Gresia è salutato da un grandissimo, meritato successo e mentre si pregusta la conferma nella prima replica, quand'ecco che il Fato si oppone e sopraggiunge una nuova indisposizione: questa volta chi sale sul palco è arrivata poche ore prima del levarsi del sipario, Renata Campanella. E ancora una volta tutto fila liscio, fra gli applausi calorosi del pubblico riconoscente.

In questa giostra di soprani, le sorti dell'opera sono rimaste saldamente ancorate alla bacchetta di Alessandro Bonato (classe 1995), che non ha mai perso il controllo della situazione, permettendo a ogni interprete, perfino quando subentrato all'ultimo istante, di esprimersi al meglio, senza perdere l'identità della sua lettura. Il risultato raggiunto con Campanella il 2 ottobre ha impressionato per la capacità non solo di far quadrare i conti, ma anche e soprattutto di assorbire le inevitabili difficoltà in un meccanismo perfettamente congegnato e oliato: l'impegno del soprano è stato encomiabile, la cura del direttore nel sostenerne la vocalità, non imperiosa, e nel guidarne l'interpretazione sollecita e autorevole. E alla fine, il dramma e il sublime erano lì, in punta di bacchetta, nello scambio continuo di gesti e sguardi fra il podio, la buca, il palco, dove il lavoro minuzioso dei giorni precedenti si è concretizzato in una collaborazione solidale, perfino premurosa nel caso dell'Adalgisa di Asude Karayavuz.

Va da sé, che l'emergenza dimostra la tecnica, la lucidità, l'autorevolezza di Bonato, ma che il lavoro di concertazione, la sua interpretazione si siano apprezzate appieno con le Norme titolari, con le quali tempi e dettagli dinamici si modellavano comunque in sintonia con le peculiarità di ciascuna. Così, la sera del debutto ufficiale, Martina Gresia ha potuto imporre senza alcuna forzatura qualità vocali di tutto rispetto per ampiezza, estensione e colore, ma non li ha semplicemente esibiti: l'attenzione alla parola si fa musica, con accenti ben soppesati e un'amministrazione delle energie che le permette di rendere il quadro finale il vero culmine della serata (e chi scrive non nasconde il brivido vero provato al fatidico “Son io”). Un debutto più che felice che potrà essere foriero di una luminosa carriera se il soprano saprà preservare e affinare la dovizia dei mezzi sulla strada tracciata ora. Sì, venticinque anni per Norma sulla carta possono sembrare pochi, ma i fatti oggi hanno dato ragione a lei e a chi l'ha portata sul palco del Grande: che continui così, con saggezza.

Forse anche ventisette anni possono sembrare pochi per dirigere Norma, tanto più che anche fra bacchette più esperte non è facile trovare la maturità e la profondità che ha dimostrato, ancora una volta, Bonato. Non c'è, nella sua lettura un manifesto programmatico, un voler essere classico, belcantista o romantico: c'è, semplicemente, il lavoro sul testo, senza routine, senza retorica, scorciatoie o gratuiti intellettualismi. L'attenzione prestata ai recitativi si estende alla cura dell'articolazione del testo in ogni numero, sicché emerge naturale il legame di Bellini con il dramma gluckiano e la tragédie lyrique tramite la scuola napoletana, Mayr, Manfroce, Rossini. Parimenti emerge la posizione storica del Catanese come punto di riferimento per l'opera a venire, Verdi e Wagner in primis. La forma è diretta emanazione del dramma e l'esecuzione integrale di riprese, code, transizioni non appare mai esornativa, bensì naturale e necessaria per l'espressione del pensiero, per il dipanarsi del racconto. Lo si avverte benissimo nello sviluppo di “Meco all'altar di Venere”, tutto meno che una stentorea cantilena, o nel rapinoso “Sola, furtiva al tempio” in cui il tempo apparentemente lento sente montare in filigrana la tensione di un palpito cangiante in crescendo. Nessun compiacimento ruffiano in un “Casta diva” di purezza strumentale e delicatissima dinamica fino al pianissimo del coro (suggestiva libertà del concertatore: il rispetto del testo non deve essere una catena), nessuno stucchevole ritenuto in un “Sì, fino all'ore estreme” che tuttavia evita pure la corsa metronomica. Anzi, si nota in ogni stretta, in ogni cabaletta lo sviluppo di un affetto specifico e non si ha mai un tempo meccanicamente simile all'altro, dal sinuoso gioco di seduzione ed elusione di “Vieni in Roma” alla disperazione feroce di “Già mi pasco ne' tuoi sguardi”, sempre nella piena intelligibilità della scrittura di Romani e Bellini, sempre in fluida continuità narrativa con quanto segue e quanto precede.

In questa visione così consapevole e moderna nello stile riescono a inquadrarsi anche due scelte di cast apparentemente più ancorate alla tradizione. Asude Karayavuz è un'Adalgisa mezzosoprano, per di più dal colore piuttosto scuro (l'abbinamento originario con Fridman sembrava, in effetti, azzeccato) rispetto alla rinata sensibilità per la natura sopranile della parte, tuttavia il personaggio è reso con tale dolcezza d'accento e di canto, con tale franca, giovanile partecipazione da convincere senza riserve. Antonio Corianò è un tenore più avvezzo a Verdi e Puccini che a Donizetti e Bellini, il suo canto è robusto, largo nei centri, incline a espressioni di forza. Il suo non essere un epigono diretto di Donzelli non impedisce di ricordare che è (anche) dagli epigoni di Donzelli che deriva questa tradizione tenorile, tanto più che il podio qui impone di non adagiarsi nell'esibizione esteriore e sollecita la ricerca del senso di ogni dettaglio.

Alessandro Spina non è un Oroveso imponente: è un Oroveso che si cura del significato e di cantar piano quando serve, e cresce nel corso della recita. Buone e promettenti anche le prove di Raffaele Feo (Flavio) e Benedetta Mazzetto (Clotilde). Il coro preparato da Massimo Fiocchi Malaspina ottiene meritati consensi soprattutto dopo “Guerra! Guerra!”, liberato dalla melensa coda non autografa, e impressiona la concentrazione dell'orchestra dei Pomeriggi musicali, capace di rendere le sfumature e di far emergere i particolari sbalzati da Bonato pur non presentandosi nel suo organico principale e consolidato, cui si aggiunge la banda interna Isidoro Capitanio.

Passa in secondo piano la regia di Elena Barbalich, che in buona sostanza non dice nulla di interessante oltre ad assecondare con qualche apparizione forse onirica la bella astrazione geometrica delle scene e dei costumi di Tommaso Lagattolla, cui va il merito, partendo da elementi classici, di aver fornito una cornice visiva di grande eleganza e qualità a un teatro che sgorga tutto dalla sinergia fra direttore, cantanti e orchestra. E quando le luci di Marco Giusti inondano di rosso fiamma la scena nell'apoteosi del finale, sull'ultimo accordo scatta l'ovazione, che si accende, in un Teatro Grande felicemente esaurito e gran parte del pubblico in piedi, soprattutto per Martina Gresia e Alessandro Bonato, a ribadire le acclamazioni tributate già a scena aperta e all'apertura del secondo atto. Ai direttori artistici in cerca di direttori e soprani conviene prendere appunti.

foto Favretto (con Martina Gresia)

fot Favretto (con Renata Campanella)

 

 

 
 
 

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