L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Le parole di Macbeth

 di Roberta Pedrotti

Il Festival Verdi non si arrende e non abdica al suo ruolo culturale, presentando anche nella programmazione ridotta per le limitazioni sanitarie l'occasione più unica che rara di ascoltare la seconda versione di Macbeth nella traduzione francese con cui si presentò la prima vola al pubblico. Uno stimolo a riflettere e scoprire nuove prospettive grazie all'intelligenza della concertazione di Roberto Abbado e dell'interpretazione di Ludovic Tézier e Silvia Dalla Benetta, che in pochi giorni ha studiato il libretto parigino per sostituire una collega indisposta.

PARMA, 11 settembre 2020 - Per Don Carlos/ Don Carlo Verdi lavorò sempre sul testo originale francese, anche per gli aggiustamenti destinati alle versioni italiane. Viceversa, quando l'impresario Carvahlo chiede di rinfrescare il Macbeth per l'Opera, si ricorre a Piave per gli interventi sul libretto, lasciando poi ai francesi Charles-Louis-Étienne Nuitter e Alexandre Beaumont l'onere della traduzione, tant'è che Macbeth va in scena a Parigi nel 1865 nell'idioma locale in assenza dell'autore e con esiti tiepidi, mentre solo nove anni dopo con il libretto di Maffei/Piave alla Scala si consegna alla storia la seconda versione del primo capolavoro shakespeariano di Verdi e si archivia l'episodio della traduzione che pure ne aveva propiziato i natali.

In effetti, Macbeth in francese, proprio considerato il lavoro di Verdi sui versi italiani (lo confermano anche goffaggine metriche difficili da emendare, come "Après" con l'accento sulla A per intonarsi come i corrispondenti "Segui" della Lady nel finale terzo), sembra più questione circoscritta a festival, documentazioni discografiche, tentazioni per cantanti madrelingua. Non siamo, insomma, alla presenza a di un originale riscoperto che debba soppiantare una tradizione distorta come nel caso, per esempio, della Favorite. Però, questo che la musicologa Candida Mantica ha restituito con un meticoloso lavoro di revisione sull'edizione critica di David Lawton, non manca di solleticare riflessioni e suggestioni, per esempio nella grande aria del protagonista, il cui primo verso "Honneurs, respect, tendresse" riprende la lezione voluta da Verdi ("Pietà, rispetto, onore") ma rimodula anche il concetto di pietà costeggiando l'errore di trascrizione di Piave passato poi nella tradizione ("Pietà, rispetto, amore).

Invita a pensare, questo Macbeth, a considerare le sottigliezze psicologiche che la traduzione porta con sé, come per esempio il coinvolgimento di Fleance da parte di Banquo: se in italiano, dopo aver invitato il figlio a "studiare il passo", l'aria si risolve sostanzialmente in un soliloquio, mentre in francese il ragazzo è direttamente chiamato in causa nella conclusione "si j'ai peur c'est pour toi". Poi c'è il tipo di allitterazioni, di sonorità della lingua, che conferiscono con i ritocchi all'orchestrazione un carattere più sfuggente, sussurrato, tant'è vero che talora sembra mancare l'appuntamento dell'attesa parola scenica, ma siamo pure costretti a drizzare l'orecchio nell'ampliarsi di un testo che s'infittisce, rifiutando alla maniera francese le ripetizioni abituali in Italia, e che talora derubrica espressioni potenti ("Rentre en toi-même" per "Voi siete demente"), talaltra, pescando da Shakespeare, si arricchisce. Oppure, muta di prospettiva, come quando lo slancio umanitario "Fratello, gli oppressi corriamo a salvar!" diventa un proclama rivoluzionario che echeggia l'appello marxista ai proletari: "Qu'un seul but unisse nos coeurs et nos bras."

Tocchiamo, allora, con mano la sensibilità per il drammaturgo inglese in una Francia che si sta scrollando di dosso i pregiudizi di Voltaire e le conseguenti pesanti riscritture di Ducis (ma Verdi, per fortuna, già vent'anni prima aveva fatto ricorso a Maffei e Rusconi, semmai a Schiller).

Tocchiamo con mano, portato in palese evidenza, tutto il legame con la Francia di Macbeth fin dal 1847, quando debutta a Firenze in un teatro, la Pergola, già aduso alle forme di Meyerbeer e al Robert le diable. Non influenza le streghe, gli spettri e le apparizioni verdiane tanto la Gola del lupo weberiana (semmai ispirazione per la sua meno minacciosa sorellina in Dinorah ou Pardon de Ploërmel) quanto l'orgia spiritata delle redivive monache siciliane e l'epifania del demonio che reclama a Palermo il figlio partorito da una principessa di Normandia.

Rendere queste finezze non è semplice esiliati per ovvie questioni di sicurezza dal teatro Regio al parco del Palazzo Ducale, ma il senso di un festival non è certo nel battere le strade più semplici. Semplice sarebbe stato rinunciare all'edizione 2020, o ridurla a una kermesse nazional popolare di minori ambizioni e forse maggiori incassi: invece il Festival Verdi continua a essere tale, resiste, propone qualcosa che non potremmo ascoltare altrove e che arricchisce la consapevolezza della storia di un capolavoro come il Macbeth. Allora, Roberto Abbado, sul podio della Filarmonica Arturo Toscanini, fa davvero l'impossibile per far intendere aromi meyerbeeriani in arcate, pizzicati, costruzioni formali, per assecondare il suono e il senso del testo francese, per compensare con scelte dinamiche e agogiche decise i limiti dell'amplificazione, della dispersione del suono, dell'umidità serale settembrina. Valorizza nella forma oratoriale la teatralità della scrittura soprattutto quando nelle scene del banchetto e della battaglia all'orchestra è richiesto di circoscrivere lo spazio, di stringere o allargare l'inquadratura fra primissimi piani appartati e campi lunghi di quadri collettivi. La massima ampiezza mette in luce la capacità del coro preparato da Martino Faggiani di articolare in nuove sonorità note già intonate innumerevoli volte, di far serpeggiare le sibilanti stregonesche o levare come una foschia fonemi intermedi; l'obiettivo ristretto sul singolo si concentra sul gesto vocale che supplisce a quello fisico che dovrebbe accompagnarlo scavando nelle peculiarità del testo francese.

L'unico madrelingua del cast, peraltro non meno abile nel fraseggio italiano, è Ludovic Tézier: a lui spetta il compito di caratterizzare un Macbeth più turbato del consueto, come si evince dalla ricorrenza di parole come remord, regrets, traître. Il recitativo e aria finale è emblematico. In italiano abbiamo «Le potenze presaghe han profetato "Esser puoi sanguinario, feroce, nessun nato di donna ti nuoce" [...] Eppur la vita sento nelle mie fibre inaridita», mentre in francese l'eco della profezia associa il delitto allo scoramento: «Mais je connais du sort la prophétie: "Endurcis dans le crime ton âme, et ne crains aucun fils de la femme!" [...] Mais à jamais purtant, par le crime ma vie sera flétrie!". L'aria, poi, non ha la veemenza dei dì cadenti e delle bestemmie come nenia, ma langue nella dolce rima tendresse/vieillesse/tristesse, lamenta "Pas un ami sincère" e "sans larmes ni regrets, je meurs, roi solitaire, effroi de mes sujets", meno disperato e più malinconico. Forte di una voce tanto bella quanto duttile e portata a un legato sapientemente accentato, Tézier proprio alla luce di quest'epilogo sembra investire ogni momento di fiera baldanza di una spavalderia ostentata e altera, in contrasto con i momenti di smarrimento e ripiegamento interiore. Poi, proprio dopo lo sfogo di massima umanità, attanagliato dai rimorsi, la reazione all'annuncio della morte della Lady porta con sé un cambio radicale nella voce del baritono, che improvvisamente si svuota d'ogni sentimento, fredda e nichilista di fronte alla consapevolezza e alla volontà quasi della sconfitta. Inevitabile che gli applausi più calorosi siano per lui, con esplosioni a scena aperta nella scena delle apparizioni ("Ah! fuis! va-t'en! Ô spectre affreux!", "Fuggi regal fantasima") e "Honneurs, respect, tendresse".

Merita poi un plauso senza riserve Silvia Dalla Benetta, che, in sostituzione dell'indisposta Davinia Rodriguez, si è assunta l'onere non indifferente di imparare in pochi giorni con un nuovo testo una parte in cui come forse in nessun'altra la parola è fondamentale (sì, l'opera è sempre recitar cantando, ma diamo pure alla Lady quel che è della Lady). Tanto di cappello, non solo per il cimento, ma anche per l'impeto e l'intelligenza con cui lo supera sfruttando al meglio le risorse di una voce agli antipodi con quella di Tézier per il carattere asprigno e spigoloso, per la secchezza tagliente con cui maligna nell'ombra senza imporsi proterva. La coppia risulta così assortita proprio sul contrasto fra una serpe nervosa e inafferrabile e un uomo lacerato ai limiti dello sdoppiamento di personalità fino all'annichilimento estremo.

Una solida locandina fa da corona alla coppia protagonista, a partire dal Banquo dell'esperto Riccardo Zanellato e dal Macduff virile e incisivo di Giorgio Berrugi, da cui si differenzia senza scivolare in seconda linea il robusto Malcolm di David Astorga. La dama è promossa a Comtesse e ha la voce piena di Natalia Gavrilan, affiancata dall'interessante medico di Francesco Leone. Prezioso anche l'apporto di Jacobo Ochoa come servo della lady, sicario e prima apparizione; dopo la sua voce virile le streghe evocheranno quella adolescenziale di Pietro Bolognini e poi quella più diafana e infantile di Pilar Mezzadri Corona, tutti efficaci nel definire una sorta di regressione attraverso le profezie.

Finisce fra gli applausi, quasi liberatori dell'affermazione di una presenza indomita nel suo progetto di ricerca, questa inaugurazione del Festival Verdi. E nemmeno l'esilio dal Regio risulta troppo amaro, fra gli alberi "au noir feuillage" del parco, di fronte alla facciata del Palazzo Ducale, a ricordarci che Parma è una città bellissima è che l'estensione al 2021 della carica di Capitale italiana della cultura ci aspetta in sicurezza.

 

 


 

 

 
 
 

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