L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La villa delle cerimonie

di Roberta Pedrotti

Chiude la triade operistica del festival Donizetti Opera Le nozze in villa, lavoro giovanile in prima esecuzione moderna, con Elio e Rocco Tanica chiamati a rattoppare una lacuna nel testo. Stefano Montanari concertatore e Davide Marranchelli regista rendono giustizia allo spirito della commedia mettendola in relazione con il mondo attuale.

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BERGAMO, 21 novembre 2020 - Cambiano i tempi, ma non certi meccanismi. Quante magiche proliferano, con diversi risultati, all'ombra del successo di Harry Potter e dei classici del fantasy? Quanto si è ampliato il ventaglio di proposte delle varie piattaforme con la fortuna di alcune serie tv? E fra queste, quanti sono prodotti di valore o di serie, tutti soggetti agli umori del pubblico? Duecento anni fa tanti piccoli teatri si affannavano ad accontentare un pubblico avido di novità soprattutto nel genere ben collaudato dell'opera buffa e i suoi schemi facilmente riproducibili. Allora come oggi s'incalzavano produzioni di qualità e di routine, titoli destinati a durare o a sparire nello spazio di un mattino, maestri, mediocri mestieranti e giovani che si fanno le ossa prima di giungere a più alti traguardi. Fra questi c'era il ventenne (o poco più) Gaetano Donizetti, i cui inizi si perderebbero fra scarne testimonianze nel procedere convulso della gavetta, se la fondazione e il festival a lui intitolato non si fossero prefissi l'ambizioso e ammirevole obiettivo di riportarli alla luce nel ciclo Donizetti200. Così, dopo Pigmalione (2017), Enrico di Borgogna (2018) e Pietro il grande (2019) anche il 2020 riesce a mantenere l'appuntamento con Le nozze in villa. Un oggetto per molti versi misterioso: tre sole produzioni – a Mantova nel 1819, a Treviso nel 1820 e a Genova nel 1822 – di cui si sa poco o nulla, nessuna citazione esplicita nell'epistolario, nessun autografo. Il lavoro certosino di Edoardo Cavalli e Maria Chiara Bertieri riesce a restituircela e a farci apprezzare un altro tassello dell'evoluzione creativa donizettiana: lo stile si fa sempre più sicuro, rispetta le forme consolidate, ma si emancipa sempre più da pedissequi rossinismi per delineare un'invezione melodica e un gusto strumentale sempre più personali, una compattezza e una fluidità di linguaggio che s'incammina sempre più decisamente, specie nelle suggestioni patetiche, sulla strada che porta all'Elisir e a Don Pasquale.

E sì che il libretto è davvero poca cosa. Bartolomeo Merelli, mentore anche di Verdi, farà la storia come impresario, ma non è un male se ha appeso al chiodo ogni velleità letteraria, dato che anche nelle Nozze in villa ritroviamo i difetti già evidenziati in Enrico di Borgogna e nel suo affastellare topoi melodrammatici. Il soggetto è il più classico che si possa immaginare: la primadonna e il tenore si amano, ma la famiglia di lei l'ha promessa al baritono. I tipi sono non meno collaudati: il tenore è un borghese benestante in villeggiatura, ma anche la primadonna ha trascorso del tempo nella capitale e ne ha assorbito la mentalità, differenziandosi da parenti e spasimanti paesani (contrapposizione vecchia almeno quanto le commedie di Menandro); come il Magistrato di Pietro il Grande, anche il maestro Trifoglio promesso a Sabina è un pedante poetastro dai comici atteggiamenti eruditi, come mille ne vediamo all'opera. Merelli, però, inciampa su sviluppi che dovrebbero venire da sé: l'equivoco del tenore scambiato per sovrano si risolve in pochi minuti, due parole e un pochino d'imbarazzo; la cugina della protagonista si lamenta di non trovar marito e già la immaginiamo appioppata a Trifoglio per concludere come si deve con doppie nozze, e invece la nonna le canta un'arietta in cui la rassicura e il personaggio, com'era venuto, scompare. Poca cosa davvero, per fortuna redenta da uno spettacolo assai grazioso per la regia di Davide Marranchelli, scene di Anna Bonomelli, costumi di Linda Ricciardi e luci (ottime come per le altre produzioni del festival 2020) di Alessandro Carletti. I paesani gestiscono una cafonissima struttura per nozze e altre cerimonie (il sindaco Petronio celebra, e ha qualche scheletro finanziario nell'armadio, il maestro Trifoglio è il socio che gestisce gli eventi) in cui lavora come fotografa anche Sabina, evidentemente più aperta ed emancipata. Claudio, il tenore, si presenta in tenuta da spiaggia, ma ha anche un completo chiaro elegante, mentre la nonna e la cugina si fasciano di lucidi colori vivaci. Tutti hanno mascherine abbinate ai costumi, sempre indossate tranne quando, a debita distanza utilizzando tutto lo spazio della platea del Teatro Donizetti, devono cantare. D'altra parte, Le nozze in villa è ambientato nella contemporaneità, l'opera buffa esige maggior contatto fisico, il teatro è vivo qui e ora, continua a parlarci di oggi, e dunque non elude il contesto in cui non smette di rinnovarsi, rinascere, esistere.

La disinvoltura con cui tutto il cast si destreggia è ammirevole (e serva di lezione ai ribelli irrispettosi), così come decisamente buona è la resa musicale. Omar Montanari è un Don Petronio dalla voce chiara e sonora, dal fraseggio sapido e comunicativo; Fabio Capitanucci un Trifoglio estroverso ed esuberante, Giorgio Misseri dalla voce morbida e svettante, perfetta per queste parti d'amoroso. Gaia Petrone patisce un po' l'acustica ribaltata con l'orchestra sul palco e i cantanti in plate, ma la finezza del suo canto si sposa benissimo alle caratteristiche di Sabina, così come la parte di nonna Anastasia è ponderata con intelligenza da Manuela Custer. Claudia Urru si fa apprezzare anche se la parte della cugina Rosaura è davvero sacrificata. Completa il cast Daniele Lettieri, Anselmo.

Stefano Montanari si divide fra cembalo (con qualche intervento ben piazzato anche nei numeri musicali) e podio affilando il suono dell'orchestra Gli Originali in un vivace spirito teatrale. La commedia scorre con agilità e freschezza lasciando che l'ispirazione lirica emerga naturale e fluida. Si inserisce bene nel discorso, ma giustamente si distingue, il “rammendo” di Elio e Rocco Tanica realizzato in collaborazione con Enrico Melozzi. Avevamo detto che il lavoro di recupero delle Nozze in villa non era stato facile e che non è pervenuto un autografo: un nodo che purtroppo non si è risolto riguarda il quintetto del secondo atto, al momento perduto. Per portare in scena l'opera, allora, urge, appunto, “un rammendo” e la scelta di affidarla a due musicisti e uomini di spettacolo di questo calibro si è rivelata vincente. D'altra parte, non sono certo nuovi a giochi di citazioni e mascheramenti fra stili ed epoche e il quintetto ascoltato questa sera lo conferma, nella tradizione nobile di un neoclassicismo un po' ironico: la forma è tradizionale, alcuni spunti tematici così ben trovati, fra maniera e ispirazione più arguta, da far dubitare dell'identificazione con materiali autentici donizettiani, alcune forme ricalcano moduli rossinisti, come nel finale della stretta, ma l'articolazione rivela sempre una frattura, un distacco, la strumentazione gioca con impasti ed effetti stranianti, si avverte un gioco continuo fra mascheramento antico e disvelamento destrutturato. La toppa spicca sull'abito, ma non stona, anzi.

Alla fine, tutti, compreso il coro preparato da Fabio tartari, si dispongono per un'ultima volta fra palco e platea. Un momento di silenzio, una commemorazione del lutto che ci ha portati a questo punto, un omaggio all'assenza ma anche alla caparbia esistenza, poi l'applauso collettivo che non è autocelebrazione, ma la celebrazione dell'idea del teatro che supera ogni limitazione e avversità, l'abbraccio collettivo di tutti coloro che intorno al teatro lavorano: con i cantanti solisti e coristi, con gli strumentisti, il concertatore, la squadra creativa, i musicologi, i compositori, i figuranti, i tecnici, i maestri collaboratori, assistenti, la direzione del festival, l'amministrazione, l'ufficio stampa, la stampa, le maschere... Il teatro è lavoro, lavoro duro, sul palco e non solo. Ricordiamocene e rispettiamolo.


 

 

 
 
 

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