L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

L'ultima epifania del genio

di Roberta Pedrotti

Mariss Jansons - His last Concert

R. Strauss
Vier symphonische Zwischenspiele aus Intermezzo

J. Brahms
Sinfonia n. 4 in mi minore op. 98
Danza Ungherese n. 5 in sol minore (arrangiamento di A. Parlow)

direttore Mariss Jansons
Symphonieprchester des Bayerischen Rundfunks
New York, Carnegie Hall, 8 novembre 2019
CD BR klassik 900192, 2020 

L'ultimo concerto e poi, dopo nemmeno un mese, sarebbe arrivata la terribile notizia. Si sapeva che il maestro era fragile di salute, che aveva annullato alcune date, ma quella mattina del primo dicembre fu un fulmine che sconvolse tutti. Perché lui, Mariss Jansons, era uno dei più grandi di sempre, forse il più grande direttore vivente.

Quest'ultimo non è che un (altro) concerto capolavoro, la testimonianza di un livello assoluto e costante nelle performance dal vivo, che il disco deve limitarsi a raccogliere degnamente (e le incisioni BR Klassik sono di qualità eccellente).

Potremmo dire che i quattro interludi sinfonici da Capriccio di Strauss sono l'occasione per esprimere il dominio del tempo e di tutte le sue dimensioni metriche, agogiche e ritmiche, se non fosse che in Jansons nulla è mai strumentale a qualcosa, tantomeno alla tecnica. Viceversa, la tecnica è esattamente dentro il pensiero musicale e il moto perpetuo di questi interludi, il sussulto del rubato e le rallentando sono sempre manifestazione profonda dell'essenza delle pagine di Strauss. Tutto appare logico, naturale, inevitabile, eppure illuminante, come se il direttore non avesse fatto altro che accendere una luce e mostrarci qualcosa che era sotto gli occhi di tutti, a saperla vedere. Così, questo flusso continuo di energia mobile che sempre si rinnova in se stessa anima l'intreccio dei temi, il balenare delle danze viennesi, una fisicità che sfiora il grottesco e un'evanescente malinconia a rincorrersi nei vortici di un valzer. Tutto questo senza che mai venga a mancare il respiro, e con il respiro il pensiero, che sembra prendere, anzi, forma nel suono.

In questo senso, Jansons e la sua Symphonieorchester des Bayerischen Rundfunks riescono a scrivere una pagina memorabile perfino con il più accattivante dei bis: la versione orchestrale della Danza ungherese n.5 di Brahms, e non stupisce se il mormorio soddisfatto del pubblico sulle prime battute si tramuti in ovazione alla fine, senza immaginare che quello sarebbe stato l'ultimo applauso per il maestro. L'attacco è morbido, impalpabile, ma anche febbrile, subito rapinoso nel suo crescendo che i timpani sottolineano con gioiosa assertività mentre un continuo stringere e dilatare – con ritardandi che rasentano la sospensione – il tempo diventa spiritoso mezzo espressivo perché anche negli estremi Jansons riesce a mantenere quella saggia sprezzatura d'antico gentiluomo, quella naturalezza disinvolta che ammanta l'arte più grande. Basterebbe questo bis a ricordare perché Jansons ha diretto i più bei concerti di Capodanno degli ultimi lustri. Per ballare, per giocare, per esagerare bisogna averne la forza intellettuale. La leggerezza ha bisogno del peso, il volo della profondità.

Questo Brahms, d'altra parte, veniva dopo il cimento della Quarta sinfonia, la cui complessità trova nel gesto di Jansons una sintesi limpidissima, un'unità di pensiero in cui la grandezza della struttura, l'ispirazione elevata nei richiami a Bach e al classicismo si fanno poesia, in un moto dinamico, in un controllo ritmico, in una dialettica metrica cui nulla sfugge e che nulla disperde. Un'aura di nobile semplicità e quieta grandezza non nasconde la Sensucht sottile di una perfezione teorica che diventa inquieto ma appassionato slancio lirico, non offusca l'affiorare energico e trionfante dell'allegro gioioso del terzo movimento, soprattutto, però, si sublima arrivando a quarto movimento elevato e problematico, pacato ma sempre dialettico, culmine di un discorso articolatissimo in cui tutto trova un preciso senso, un'ineludibile consequenzialità. La capacità di Jansons di tornire il suono arriva ai limiti del possibile – e stiamo solo ascoltando ciò che catturano gli strumenti! – in una varietà di colori, di pesi, di spessori in tutte le gradazioni dinamiche e sempre con una sostanza materiale piena, definita, timbrata anche nelle sue espressioni più sottili e sfuggenti. Ed è sempre mordente, significativo in ogni dettaglio, sfumando all'inverosimile con una consapevolezza intellettuale che permea l'intera sinfonia. Una lettura colossale da parte di un intellettuale e di un poeta, di uno dei musicisti più profondi e sensibili di cui sia rimasta traccia.

Vi pare agiografia? Ascoltate questo disco.


 

 

 
 
 

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