L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il canto di Pasquini

di Francesco Lora

Il Festival di Musica antica di Innsbruck dedica spazio al compositore di adozione romana e alla sua poco nota produzione vocale, con l’opera L’Idalma e l’oratorio Caino et Abel. Filologicamente discutibile la lettura musicale di Alessandro De Marchi, per entrambe le partiture, e netto spicco degli artisti di madrelingua italiana nelle rispettive compagnie di canto: Arianna Vendittelli, Anita Rosati, Margherita Maria Sala e Rocco Cavalluzzi da una parte, Nile Senatore, Furio Zanasi e Luigi De Donato dall’altra.

INNSBRUCK, 16 e 18 agosto 2021 – Bernardo Pasquini è oggi ricordato soprattutto come compositore e virtuoso di musica per strumenti da tasto, mentre meno nota ed esplorata è la sua produzione compositiva vocale, che nella seconda metà del Seicento lo rese invece tanto più celebre tramite drammi per musica, oratorii e cantate. Benvenuta è dunque l’iniziativa del Festival di Musica antica di Innsbruck, il cui programma è stato quest’anno innervato di musica vocale pasquiniana: sei recite della commedia L’Idalma overo Chi la dura la vince, dal 6 al 16 agosto nella sala grande della Haus der Musik, e una singola esecuzione dell’oratorio Caino et Abel, il 18 agosto nel Duomo di S. Giacomo. Entrambe le partiture ebbero la loro genesi a Roma: l’oratorio nel 1671 e l’opera nel 1680; insieme danno conto non solo dell’arte di Pasquini, ma anche di quale fosse il linguaggio musicale, in Italia, nel periodo teso tra la fine dell’attività teatrale di Francesco Cavalli e l’avvio di quella di Georg Friedrich Händel: un trentennio abbondante e aureo, che tuttavia – hic sunt leones – non è mai stato adeguatamente riconsiderato e ancora non appartiene alla comune esperienza d’ascolto. Si vede riconfermata, in tale senso, la differenza qualitativa tra opera e oratorio nel periodo detto, anche e soprattutto nelle mani di un medesimo autore: circa 1500 versi poetici e almeno tre ore per l’opera, con musica concepita in modo tale da essere agevolmente eseguita e universalmente goduta, a costo di forme brevi, semplici, immediate, e con un ampio affidamento degli esiti all’abilità scenica dei cantanti; circa 500 versi poetici e circa un’ora per l’oratorio, con musica concepita in modo tale da essere ammirata presso un uditorio competente, scelto, concentrato, in virtù di forme non di rado ardite, e con un ampio affidamento degli esiti alle sottigliezze retoriche di librettista e compositore.

Sia per L’Idalma sia per Caino et Abel, la concertazione è assunta da Alessandro De Marchi, anche direttore artistico del festival. Nel suo lavoro spiace ritrovare fraintendimenti che da troppo tempo si trascinano circa la corretta lettura di una partitura secentesca. Salvo rare eccezioni, i manoscritti pervenuti ai nostri giorni non sono affatto canovacci da sviluppare ad arbitrio, bensì testi completi e chiari, da eseguire alla luce di specifiche competenze. Un esempio banale: anche nelle fonti dell’Idalma, come quasi sempre avviene, non è esplicitato quali strumenti suonare; questo, però, non è un invito a fare di testa propria e sfogare la fantasia: significa invece che quei due righi in chiave di Sol, quello in chiave di Alto e quello in chiave di Basso spettano all’ineludibile coppia di violini, a una viola da braccio e al gruppo di violoncello, violone, tiorba e clavicembalo che realizza il basso continuo; non di più: in teatro non si sprecava denaro; e soprattutto: è ai cantanti che spetta fare l’opera. De Marchi si avvale invece di un’orchestra – quella residente del festival – ripartita in concertino e concerto grosso, con flauti, viola da gamba, lirone, fagotto, claviorgano, strumenti da pizzico e percussioni a volontà, dove il testimone passa senza posa da un leggio all’altro: il sobrio gruppo strumentale all’italiana, fatto per sostenere e intervallare il canto, diviene una falange dai troppi e anacronistici timbri e gesti, dove la pulizia delle linee melodiche e il naturale porgere dei cantanti annaspano come tra sabbie mobili. Risulta così più filologicamente a fuoco l’allestimento con regìa di Alessandra Premoli, scene di Nathalie Deana, costumi di Anna Missaglia e luci di Antonio Castro: in esso si finge che i personaggi siano i dispettosi fantasmi di una villa barocca in corso di restauro; il perché di una tale idea rimarrà un mistero, ma almeno il colpo d’occhio è felice e il lavoro con gli attori è alacre.

I cantanti si dividono in due squadre. Da una parte stanno le signore: i soprani Arianna Vendittelli e Anita Rosati, rispettivamente come protagonista e Dorillo, e il contralto Margherita Maria Sala, come Irene; sono tutte di madrelingua italiana e recano con sé un profluvio di colori, ironie, tormenti e allusioni, sino a fare di parola e musica una sola cosa. All’opposto stanno i tenori Rupert Charlesworth, come Lindoro, Morgan Pearse, come Almiro, e Juan Sancho, come Celindo (parte in verità contraltile, con conseguenti affanni): nessuno tra loro ha una pratica disinvolta dell’italiano, sicché ogni pur buona intenzione resta espressivamente maldestra o inerte o esagerata, e toglie interesse alla qualità della materia vocale. Quanto al basso Rocco Cavalluzzi, fa squadra con le signore e garantisce alla brillante parte di Pantano timbro sugoso e recitazione disinibita. Il distinguo sui cantanti va ripetuto nel caso di Caino et Abel: i soprani Sophie Rennert ed Émilie Renard, come Eva e Caino, mostrano una forbita linea di canto, ma all’Abel del contraltino Nile Senatore, al Testo del tenore Furio Zanasi e all’Adamo, al Satan e all’Iddio del basso Luigi De Donato basta un nulla per toccare cuore e mente con esattezza di affetti e accento. Anche nell’oratorio, De Marchi incappa in qualche scelta cattiva, come lo spezzettarvi dentro la Sonata a 4 in Sol minore di Arcangelo Corelli, o come l’affidare il madrigale d’apertura non ai solisti ma al folto Coro Maghini. Tale compagine, d’altra parte, è sul posto soprattutto per eseguire, accanto all’oratorio volgare di Pasquini, il latino Judicium Salomonis di Marc-Antoine Charpentier: ed è nei più rigorosi vincoli del repertorio francese che De Marchi mostra la sua più lodevole fluidità ed eleganza; con un unico, ultimo bemolle: per la pronuncia del latino, l’autore era il primo a volere la fonetica romana, non quella gallica.


 

 

 
 
 

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