L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Vaghe stelle d'avorio ed ebano

 di Roberta Pedrotti

Lettura leopardiana di raro fascino, quella offerta da Krystian Zimerman con il suo programma tutto schubertiano, aperto, singolarmente, con un fuori programma a sorpresa: una sorta si singolare bis anticipato.

IMOLA, 22 maggio 2015 - Già di per sé il Teatro Ebe Stignani di Imola merita una visita. Un gioiellino di macchina del tempo, sorto nei primi anni del XIX secolo e decorato con tutta l'orgogliosa passione che una piccola comunità poteva mettere nell'intima sala e nel microscopico foyer, delizioso davvero, con ambienti moderni (i bagni e il bar) sobri e funzionali. All'ingresso della platea campeggiano due targhe a ricordare i convegni del partito socialista del 1902 e del 1920, svoltosi quest'ultimo alla presenza di Antonio Gramsci e tappa fondamentale per la nascita del PCI. Il profumo è quello di una Romagna d'altri tempi e si concretizza fisicamente in quell'aroma che solo in alcuni teatri ancora si avverte e riesce a rendere gradevole l'inimitabile fragranza mista di polvere di palcoscenico, velluti, legno e stucchi.

Imola è anche, per la sua prestigiosa Accademia, una piccola capitale del pianoforte in Italia in cui è attivo un Circolo della Musica promotore di una stagione raffinata quanto ricca di nomi di prestigio: diviene così naturale ritrovarsi, sotto una pioggia battente e ostinatamente fredda nonostante il maggio inoltrato, in questo nido di memorie per ascoltare Krystian Zimerman.

E nello scrigno imolese, intitolato alla grandissima cantante partenopea di nascita ma romagnola d'origini e d'adozione, Zimerman schiude uno dei suoi piccoli, surreali miracoli.

Il frac impeccabile su cui spicca una chioma bianchissima sembra uscito da un'altra dimensione e suggerire un'atmosfera di fiaba fuori dal tempo, come il suo gesto, il suo modo d'essere così discreto, perfino perturbante, distante e affabile nello stesso tempo. D'altra parte dichiara d'intendere il concerto come un momento vissuto “fra amici”, non sembra mai badare al prestigio della sala e del contesto più che al suo desiderio di suonare, di fronte a un pubblico come se fosse nel proprio studio. Tuttavia il severissimo controllo, quasi utopia donchisciottesca, contro registrazioni d'ogni sorta suscita una tensione innegabile: le mezze luci in sala durante tutto il concerto, allora, ci tengono allerta, sospesi fra la sensazione d'essere controllati in ogni gesto e quella di non essere pubblico passivo, ma ospiti che condividono il piacere della musica.

Tutto si dimentica, e tutto - alla fine - si gode, giacché risiede anche lì parte del fascino di Krystian Zimerman, ma può sussistere solo perché la sua stravaganza discreta poggia su una qualità artistica assoluta, la sua personalità è un tutt'uno con un pianismo meticoloso e ammaliante. Fin dall'esordio, quando ribalta la struttura stessa del recital e apre il programma con un fuori programma.

Attendiamo, locandina alla mano, la Sonata in La maggiore D 959 di Schubert, Zimerman entra, ringrazia, siede al piano e attacca. Note perlacee, delicate e spiritose, lievi e profonde come un gioco d'infanzia, semplicissime nella magia del suo tocco incantato, ma non quelle della Sonata D 959. Noi applaudiamo, lui s'inchina, sale la febbre, fomentata dalle più diverse proposte, dell'individuazione del bis anticipato, dell'antibis. Ovvero, le Sette Variazioni facili attribuite a uno Schubert all'incirca tredicenne e poi annunciate per i prossimi recital del pianista, il quale evidentemente ha deciso, in barba alle formalità, di suonarle anche a Imola semplicemente per il piacere di farlo. Questo è Zimerman.

Ed è il pianista per il quale la cura maniacale del suono, del colore, dell'intensità, della sgranatura e della legatura, l'apoteosi della ricerca tecnica volta alla miniatura più che al virtuosismo non si traduce mai in calligrafia, lascia dimenticare il valore della perfezione pura e semplice (tanto che, alla fine, poco o nulla ci cale se sia effettivamente impeccabile) per proiettarsi completamente in un'unitarietà di visione e fraseggio che possono dischiudere un mondo.

Con Schubert, per lo meno, Zimerman coglie una singolare affinità, equilibrando, ma non smorzando, quel senso di leggerezza, di gioco, di intimità proprio del compositore trentenne, con l'incombenza della morte che sarebbe sopraggiunta poco dopo la stesura delle due sonate (la citata D 959 e la D 960 in Si bemolle maggiore) in programma. L'inquietudine, il senso della fragilità dell'esistenza pervadono intimamente la scrittura, come una tabe sottile, ma non sono mai invasive. Il discorso non si appesantisce, bensì acquisisce una profondità cangiante, traslucida, in bilico fra luce e ombra, fra dolore e slancio vitale, rassegnazione e gioco. I tempi, il legato, le dinamiche, l'assoluto controllo di ogni dettaglio permettono a Zimerman di immergersi da maestro – e di immergerci – in un clima poetico leopardiano, di cogliere il senso del vago cantato dal Recanatese proprio in virtù di una straordinaria nettezza e lucidità musicale. I tempi lenti, in particolare, toccano vertici assoluti, nel cui mare il naufragio è più che mai dolce. Un piccolo capolavoro nel capolavoro, nell'alternanza naturalissima di attese, dì di festa, consapevolezze, sogni, rimpianti. 

Il pubblico è in estasi.

Il bis c'è già stato, prima di tutto. Zimerman ringrazia cortese e sorridente, senza indugiare: è lieto di aver condiviso con noi la serata, chiaramente, ma non gli interessa compiacersi del nostro entusiasmo, solo salutarci. Là, fuori, c'è il suo furgoncino che lo aspetta, poi partiranno insieme, soli, lui e il suo pianoforte.


 

 

 
 
 

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