L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Macbeth paralleli

 di Roberta Pedrotti

La ripresa dell'allestimento bolognese del 2013 con locandina pressoché invariata si rivela ricca di sorprese grazie, a fronte di una resa vocale non eccelsa e di una messa in scena interlocutoria, alla magnifica concertazione di un Roberto Abbado colto in un momento di formidabile maturità artistica.

BOLOGNA 6 ottobre 2015 - Parlando del suo lavoro teatrale sul Macbeth verdiano, Bob Wilson usa spesso la definizione di “partitura parallela”, espressione perfetta e perfettamente aderente a questa ripresa bolognese, che, pur conservando quasi integralmente la locandina della prima di due anni e mezzo fa, appare profondamente, sottilmente differente.

Lo scarto si deve soprattutto al piano parallelo alla partitura di Wilson, quello della partitura verdiana letta da Roberto Abbado, che di fatto sembra ribaltare totalmente l'impostazione del 2013: tanto era specchio del teatro wilsoniano allora, lineare e tendente all'astrazione, quanto oggi è sbalzata con una vivacità e una plasticità di forza eguale e contraria rispetto a quel che si vede sulla scena. Tale potenza drammatica, per essere così autentica e incisiva, non può venire, ovviamente, dall'enfasi, bensì da una cura certosina, da un'analisi musicale intelligentissima, acuta, profonda, naturalmente portata a una sintesi ben definita in tutti i suoi contorni. Quante volte avremo sentito l'orchestra del Comunale di Bologna suonare così bene? Le trombe e gli ottoni tutti così precisi, espressivi, debitamente e araldicamente brillanti nella scena della battaglia? E non si tratta soltanto di un'alta qualità esecutiva, ma di un autentico lavoro di concertazione che s'intende, per esempio, nell'attenzione alle arcate dei violini, differenziate a seconda della tinta specifica ricercata per rendere ora il grottesco, ora il demoniaco, ora il lirismo, ora il dramma o il mistero. Il colore si trova nei dettagli, come nell'uso delle sordine, nella valorizzazione degli accostamenti timbrici, in quegli interventi del clarinetto basso che di rado, perfino in disco, s'intendono così netti, espressivi, densi di significato teatrale e musicale.

Abbado realizza un equilibrio raro, lascia fluire tempi e accenti con un controllo mirabile quanto discreto, ché nulla sembra sfuggire al suo disegno, ma nemmeno imbrigliarsi in un rigore imposto. La trina iridescente scandita da finissima sensibilità ritmica dispiega il dramma con puro senso di necessità musicale e teatrale insieme, sempre giusto nel registro, nel tono, nell'incedere retorico e nel gesto sonoro, puntuale nel colore e nella trama dei sottintesi, coinvolgente e intrigante senza mai scadere nell'autoreferenzialità, senza mai uscire dalla misura del gusto e dell'eleganza con alcunché di ridondante.

Abbado è il trionfatore per quel che concerne la prima partitura, quella verdiana, e, di conseguenza, è il vero protagonista e l'autentica colonna portante dello spettacolo, capace di condurre in porto una compagnia che non si può proprio definire esaltante.

Amarilli Nizza è l'unica vera novità ed eredita i panni che furono di una carismatica Jennifer Larmore. A differenza della collega statunitense, belcantista pur non nel fulgore dei propri mezzi, il soprano italiano è di temperamento e formazione schiettamente verista, il che non solo la porta a mal sopportare – consciamente o inconsciamente – le costrizione sceniche imposte da Wilson, ma anche a mostrarsi abbastanza insofferente alla disciplina musicale imposta da Verdi, oltre che in difficoltà con il legato, spesso acidula e stimbrata in un canto dal sostegno non infallibile. Si dice che la Lady dovrebbe recitare più che cantare e che la bellezza del canto non è essenziale? Strumentalizzazioni delle lettere verdiane che perdono di vista il vero fulcro del discorso – l'importanza della parola scenica e del teatro – per giustificare carenze tecniche e musicali. La Lady, per assolvere al suo compito, non può non esser padrona del Belcanto.

Dario Solari appare, nei panni del protagonista, più disciplinato per intonazione e solfeggio rispetto al 2013, anche se la voce rimane tecnicamente poco rifinita, con conseguente povertà di legato, colori e dinamiche e fraseggio poco incisivo.

Molto meglio Riccardo Zanellato, che assicura al suo Banco, se non un'interpretazione elettrizzante e una vocalità sontuosa, quantomeno un'impeccabile professionalità. Allo stesso modo sarà da lodare lo squillo di Gabriele Mangione, ben messo a frutto nei panni di Malcom, mentre Lorenzo Decaro (due anni fa in seconda compagnia) lascia perplessi per la musicalità poco duttile e rifinita, così come per l'emissione istintiva. Soddisfano, invece, nel complesso, le parti di fianco, dalla Dama di Marianna Vinci al Medico di Alessandro Svab, dal Sicario di Sandro Pucci, all'Araldo di Luca Visani alle tre Apparizioni (in locandina, senza distinzione di date, i nomi dei bassi Michele Castagnaro ed Enrico Picinni Leopardi, delle voci bianche preparate da Alhambra Superchi: Chiara Alberti, Alice Bertozzi, Ludovica Rotolo, Annalisa Taffettani e Caterina Zanardi). Il coro diretto da Andrea Faidutti si fa valere con una buona prova, soprattutto per un dolente e delicatissimo “Patria oppressa”, ancor più toccante quando si noti l'attualità dei versi di Piave rispetto alle tragedie consumate quotidianamente nel Mediterraneo.

Così la partitura del Macbeth di Giuseppe Verdi, cui il parallelo Macbeth di Bob Wilson risponde con intenzioni di aperto contrasto alternato a ricerche d'incontro e sintonia. L'ideale estetico è quello di una totale astrazione ispirato ai codici del teatro orientale, a una drammaturgia identificata con l'estetica e coincidente con atmosfere rarefatte, gesti irrealistici, virtuosismo illuminotecnico ad abbagliare lo spettatore per creare l'illusione, ove ritenuto necessario, della più profonda tenebra. Una coreografia luminosa in cui agiscono figure spersonalizzate come burattini (e il pensiero non corre solo al teatro di figura giapponese o indonesiano, ma anche all'attore-macchina del Futurismo) la cui stilizzazione non si pone in fondamentale contrasto con il soggetto: quella di Macbeth è una tragedia che in ogni tempo può vivere d'impellente e concreta attualità politica, ma che possiede anche un respiro universale che ammette anche una rappresentazione svincolata da riferimenti realistici.

Si tratta, però, di un'opera e il ritmo teatrale dell'opera è quello della musica, l'arte di plasmare il tempo attraverso i suoni. Poiché il teatro di Wilson è, appunto, a sua volta un teatro del tempo dilatato e spazializzato, la sovrapposizione di queste due diverse misure risulta alquanto rischiosa, quando non problematica e il lavoro del regista texano è talmente minuto da apparire, infine, sfuggente e inafferrabile, da polverizzarsi fra le mani e disperdersi spazzato via dal turbine verdiano in granelli che, tuttavia, possono andarsi a infiltrare fra gli ingranaggi del dramma intralciandone il movimento. Gli opposti, infatti, finiscono per toccarsi e l'astrazione portata alle estreme conseguenze e costretta in un codice espressivo affatto lontano torna alla convenzione, ci fa ritrovare il cantante lirico non attore, ma impacciato manichino con la mano al cuore, affannato in un proliferare di gesti che paiono superflui o di piroette e corsette all'indietro (quasi un maldestro moonwalk) che muovono al sorriso più che costruire una drammaturgia estetica autonoma e significativa. Allo stesso modo le variazioni cromatiche sembrano più rispondere all'arbitrio poetico di Wilson che a un sistema intellegibile: lo spettacolo si compone, dunque, di singole immagini anche suggestive quando statiche, ma drammaturgicamente irrelate, poco convinte nella realizzazione, un po' maldestre nelle scene d'assieme (il banchetto del secondo atto), per ammissione dello stesso regista il momento più problematico per l'incontro fra il suo stile e il testo verdiano.

In realtà quelle imperfezioni, quelle piccole sbavature nel sincrono dei movimenti o nella puntatura delle luci, quell'estraneità genetica di alcuni interpreti a uno stile recitativo che richiede anni di vero e proprio addestramento, evidenti perché è nell'estetica pura e perfetta che si consuma tutto il senso ultimo dello spettacolo, danno in questa ripresa quantomeno una dimensione più umana che ammorbidisce la percezione e permette di meglio godere dell'altra partitura, quella così splendidamente retta da Roberto Abbado.

Così assistiamo a una magnifica prova di podio e orchestra, a una lettura superlativa della musica – così intimamente teatrale – del Macbeth di Giuseppe Verdi, tutta da ascoltare nonostante una compagnia di canto non sempre all'altezza, mentre davanti ai nostri occhi scorrono immagini non necessariamente ad essa relate, ora efficaci ed evocative, o semplicemente suggestive, ora meno riuscite, estranee, contrastanti, perfino arbitrarie e distraenti.

Alla fine è un successo per tutti, ma soprattutto, per noi, è la festa di una grande concertazione verdiana e di una prova entusiasmante dei complessi del Comunale.


 

 

 
 
 

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