L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il ritorno dei tenori

 di Roberta Pedrotti

Michael Spyres torna a Pesaro per un concerto a tre voci con Sergey Romanovsky e John Irvin: il percorso attraverso i personaggi tenorile dell'opera seria napoletana di Rossini è intrigante ed elettrizzante, il programma costruito con intelligente coerenza e ritmo avvincente. E se Spyres è già una stella del firmamento rossiniano, Romanovsky si candida di diritto ad affiancarlo.

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PESARO, 17 agosto 2017 - Negli anni Novanta del secolo scorso, quando Chris Merritt si è ritirato dall'agone rossiniano e, nell'arco del decennio, anche la carriera di Rockwell Blake è andata diradandosi, si è percepito un vuoto che pareva incolmabile nel panorama tenorile rossiniano, benché alle spalle dei grandi divi statunitensi si fossero già da tempo affermati i compatrioti Bruce Ford, troppo sottovalutato, e Gregory Kunde, l'immortale. L'orizzonte delle nuove leve pareva però alquanto incerto, finché Juan Diego Flòrez non ha rinverdito e rinnovato la tradizione dei belcantisti latini, approcciadosi tuttavia al Rossini serio gradualmente, con relativa cautela. Da allora, passando o meno da Pesaro, hanno cominciato a rifiorire voci tenorili dedite a questo repertorio e mentre in Italia Antonino Siragusa ha affrontato quasi tutti i titoli rossiniani, da oltreoceano arrivano John Osborn e Michael Spyres, Javier Camarena e Lawrence Brownlee, per dirne solo alcuni. Oggi, cosa impensabile una manciata di lustri or sono, sembra che uno dei problemi minori per allestire un'opera del Pesarese sia proprio la scelta dei tenori.

La scuola americana (e latinoamericana) appare decisamente florida, ma cresce anche la scuola russa: basti pensare che quest'anno al ROF nelle tre opere principali (ma anche nel Viaggio a Reims con il Libenskof di Ruzil Gatin) i primi tenori erano tutti di natali ex sovietici e che tutti hanno fatto una splendida figura.

USA e Russia si fronteggiano dunque amichevolmente in campo tenorile anche per il primo dei grandi concerti con orchestra di questo trentottesimo ROF e con la stella amatissima di Michael Spyres abbiamo occasione di riascoltare i due tenori del Siège de Corinthe, John Irvin e Sergey Romanovsky.

Il programma è costruito benissimo, con impegni ben calibrati e simmetrie di titoli e forme offre non solo un ascolto elettrizzante, ma anche una felice panoramica sulla voce di tenore nell'opera seria rossiniana, magari un po' sbilanciato sul versante baritenorile, ma comunque assai eloquente. Il primo duetto, “Donala a questo core” da Ricciardo e Zoraide, è l'unico a proporre un ruolo concepito per Giovanni David e Sergey Romanovsky lo affronta ammantando di suggestive bruniture la tessitura contraltina, sicché il contrasto con l'Agorante di Michael Spyres è tutto di accenti e articolazione più che di colori, che viceversa si fondono e si compensano vicendevolmente in un suggestivo impasto. In effetti, se Spyres torna a farci godere con il gioco arguto e teatralissimo fra i registri, con quell'ampiezza baritonale nei gravi e nei centri che esprime a meraviglia il carattere eroico, ma anche ingenuamente amoroso, del re nubiano, Romanovsky colpisce in questo concerto per una proiezione vocale che il teatro Rossini, pur poco generoso quanto ad acustica, asseconda assai meglio dell'infida Adriatic Arena. Possiamo così ammirare nel tenore russo la sicurezza dell'estensione, la virilità del timbro, la duttilità belcantista, tutte doti che si rinnovano nel contrasto fra elegia e piglio cavalleresco del duettino “Come l'aurette placide” da Armida. Parimenti, quando Spyres intona “Non m'inganno, al mio rivale” da Otello si impone come degno erede degli altri interpreti del ruolo al Rof: Merritt e Ford in questo stesso teatro, Kunde all'Adriatic Arena. Non inferiore, ma nemmeno epigono, bensì sempre personale e inconfondibile.

Personali e inconfondibili sono, nella porzione solistica del concerto, sia Romanovsky sia Spyres alle prese con due cavatine composte egualmente per Adrea Nozzari: “Minacci pur, disprezzo” da Ricciardo e Zoraide per lo statunitense, “Che vidi! Amici, oh eccesso!” da Zelmira per il russo. Come già nello stupefacente recital fiorentino dello scorso autunno, Spyres mette una forte ipoteca sul Ricciardo programmato al Rof per il 2018: difficile ignorare il suo Agorante e pensare a un'alternativa migliore per autorevolezza, baldanza belcantista, gusto nel fraseggio, abilità nella mezzavoce (magnifica davvero la messa di voce sfoggiata nella sezione centrale), carisma e sensibilità d'artista. Parimenti Romanovsky, con un contegno più altero dimostra una notevolissima chiarezza e di eloquio e di musicalità, dipanando la scrittura infida di Antenore con disinvoltura e belle intenzioni: tutte le belle qualità, anche in termini di coloratura ed estensione, intuite alla prima del Siège si sciolgono da ogni tensione e splendono rivelando un futuro nome di riferimento del firmamento rossiniano.

Terzo fra cotanto senno, John Irvin ha modo di far ottima figura nei momenti d'insieme (nel duettino fra Carlo e Ubaldo da Armida e come Jago al fianco di Spyres), con proiezione sicura e incisiva, musicalità precisa e ben a fuoco. Quando però l'ottima spalla si trova a diventare primo attore, allora qualche nodo viene al pettine e Irvin rischia di apparire come il vaso di coccio fra i vasi di ferro, con una lettura alquanto intimidita di “Ah dov'è il cimento” da Semiramide (ci si chiede, quando semplifica qualche passaggio, se non ci fosse un pezzo più abbordabile da inserire in scaletta, ma, in effetti, la coerenza del programma lasciava poco spazio a pagine meno impervie).

Torna a convincere appieno quando si giunge al gran finale, ovviamente il terzetto tenorile di Armida “In quale aspetto imbelle”, in cui il Rinaldo nobile e amoroso così ben sfaccettato nella voce di Spyres trova degnissimi compagni in Irvin e Romanovsky, in una gara virtuosa di cesello rossiniano e virile brillantezza vocale.

È un comprensibile diluvio di applausi che coinvolge calorosamente anche David Parry, entusiasta concertatore che, però, avevamo apprezzato più in altre occasioni [per esempio i cocerti con Spyres a Pesaro e a Firenze], mentre qui, forse per scarsità di prove e gusto un po' esuberante, ci fa sentire qualche pesantezza di troppo. Certo, poi, la selezione strumentale che intercala il programma è scelta con perfetta coerenza, dalla sinfonia e dai ballabili (prudentemente orbati del finale) di Armida al Pas de soldats di Guillaume Tell, ma si tratta di pezzi assai scoperti per legni e ottoni e la Filarmonica Gioachino Rossini mostra qualche affanno. Nulla, comunque, che possa inficiare la buona riuscita complessiva del concerto. E mentre si esulta per il fiorire di tenori rossiniani, il bis richiesto a gran voce non può che essere la parte finale del terzetto di Armida.

 

foto Amati Bacciardi


 

 

 
 
 

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