L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Javier Camarena e Cecilia Bartoli

Sulle tracce di García

 di Francesco Lora

Concessione operistica al Festival di Musica sacra di Pavia: rievocando con qualche libertà la carriera del tenore rossiniano Manuel García, Javier Camarena segna al Teatro Fraschini il proprio trionfale debutto italiano. All’apparire di Cecilia Bartoli per prendere parte al terzo bis, ha infine luogo un cameo da lasciar pallida ogni altra rassegna.

PAVIA, 23 maggio 2018 – Parrà incredibile ma un tenore come Javier Camarena, osannato in una carriera contesa tra Austria, Germania, Spagna, Stati Uniti e Svizzera, non aveva ancora aperto bocca davanti al pubblico italiano. Per la verità una volta era accaduto, nel giugno 2012, ma con un’epifania in punta di piedi: si trattava di un concerto bolognese con Claudio Abbado e l’Orchestra Mozart, e il programma verteva sulla Messa D 950 di Schubert, con i suoi interventi solistici così castigati da imporre l’apparizione timida (altri due giovani completavano il comparto maschile: Paolo Fanale e Alex Esposito; nessuno dei tre, com’è evidente, ha spiccato il volo). L’occasione di entrare in Italia per la porta principale è arrivata col quarto appuntamento del Festival di Musica sacra di Pavia, il 23 maggio, nel Teatro Fraschini, giusto all’indomani di una memorabile Messa da Requiem di Verdi [leggi la recensione]. Si è trattato dell’unica concessione al profano, anzi all’opera, nell’àmbito di un cartellone dal lusso tutto divino: un concerto importato dal Festival di Pentecoste di Salisburgo – dov’era stato eseguito tre giorni prima – e dedicato allo storico tenore proto-ottocentesco Manuel García.

In programma, pagine da riscoprire composte da quest’ultimo in persona: la Sinfonia dal Don Chisciotte e le arie spagnole «Formaré mi plan con cuidado ... En mi comedia juntamente» dal Poeta calculista e «Hernando desventurado ... Cara gitana» dal Gitano por amor, e quelle francesi «Mais que vois-je? ... Vous dont l’image» e «De ses yeux tout ressent l’empire» dalla Mort du Tasse; ma anche la Sinfonia da Giulietta e Romeo di Nicola Antonio Zingarelli, tragedia dalla quale deriva l’aria (a suo tempo feticcia) «Più dubitar mi fan questi suoi detti ... Là dai regni dell’ombre e di morte»; per dire infine delle pagine più note in quanto dovute a Rossini, il compositore che più di tutti ha fissato García nella storia: le Sinfonie della Cenerentola e del Barbiere di Siviglia, le arie «Sì, ritrovarla io giuro» e «Cessa di più resistere» dalle stesse opere nonché «S’ella m’è ognor fedele» da Ricciardo e Zoraide. Tra i bis spunta poi il brano del Poeta calculista che nell’Ottocento ebbe più vasta diffusione, «Yo que soy contrabandista», nonché – senza trasposizione di tono – «Deh vieni alla finestra» da Don Giovanni di Mozart, a ricordare in qualche modo la versatilità di repertorio e la natura di baritenore che caratterizzarono García.

Tutto fila per vividezza di discorso, quando non sempre per sua coerenza. Di Rossini, per esempio, García creò non solo la parte del Conte d’Almaviva, ma anche quella di Norfolk in Elisabetta regina d’Inghilterra, comprensiva del funambolico rondò qui nemmeno preso in considerazione; al contrario, in Ricciardo e Zoraide interpretò di rado la parte di Agorante, ma proprio mai quella di Ricciardo cui appartiene la cavatina presentata; quanto alla Cenerentola, entrò nel repertorio del cantante soltanto sul finire della sua carriera, ed è forse da dimostrare che l’aria di Don Ramiro figurasse al proprio posto. Cavilli da musicologo. Mentre la diagnosi del vociologo su Camarena è la seguente: mezzi soggioganti per luminosa omogeneità timbrica da un capo all’altro della tessitura; per la facilità d’estensione fino a toccare spavaldamente il Mi sopracuto; per la comunicativa nel porgere sia umano e affettuoso, sia virtuoso ed erudito; per l’insolenza dell’agilità in un calibro da tenore schiettamente lirico, il quale ha tutte le carte in regola per cimentarsi non solo nei prediletti Rossini, Donizetti e Bellini, ma anche nel Verdi che non sia Fenton o nell’oneroso protagonista dei Contes d’Hoffmann di Offenbach.

Siccome poi in un concerto di vaglia i bis non possono fermarsi a due, ecco la stupefacente cronaca del terzo. È la scena e duetto di Angelina e Don Ramiro dalla Cenerentola: intonando le prime battute del recitativo, come nell’opera, Camarena va cercando per il proscenio; ed ecco spuntare da dietro la tela l’impagabile Angelina delle sue recite salisburghesi del 2014, Cecilia Bartoli, con lo stesso costume che là le avevano cucito addosso Damiano Michieletto e Agostino Cavalca. Cameo da lasciar pallida ogni altra rassegna, con Camarena ancora fresco, viepiù simpatico e divertito, gongolante di avere accanto a sé, per ratifica del trionfo, la regina non solo delle semicrome slanciate in vortice, ma anche della parola incisiva, ironica, semplice, tagliata sul saper condurre una commedia all’italiana. Mentre si riunisce una coppia regale, altri fanno il loro dovere di cortigiani umili: sono i Musiciens du Prince, i quali fanno apprezzare, strumenti originali in mano, gli antichi equilibri fonici tra le sezioni d’orchestra, col fraseggio graffiante in primo piano sui timbri; ed è il docile concertatore Gianluca Capuano, il quale ubbidisce ai desideri dei cantanti sommi senza azzardarsi a esibire genio personale.


 

 

 
 
 

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