L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La fuga di Rudy

 di Gina Guandalini

Presentato in anteprima a Roma, un film fortemente voluto da Ralph Fiennes racconta la vicenda della fuga di Rudolf Nureyev dall'Unione Sovietica.

Il Festival del British Film Institute ha proiettato un’anteprima del film The White Crow (Il corvo bianco), un biopic che racconta la defezione all’occidente del grande ballerino Rudolf Nureyev, avvenuta all’aeroporto Le Bourget di Parigi nel giugno 1961. Il film è il terzo ambizioso lavoro di regia dell’attore cinematografico e shakespeariano Ralph Fiennes (Schindler’s List, Il paziente inglese, Red Dragon, la serie di Harry Potter, Grandi speranze) dopo The Invisible Woman e Coriolano. Qui il mattatore britannico non è ovviamente protagonista, ma si è annessa la parte –recitata esclusivamente in russo! – del maestro di danza di Nureyev a Leningrado, Alexander Pushkin.

La storia dei primi ventitrè anni del “divino Rudy” è stata sceneggiata dal commediografo David Hare e, su precise indicazioni di Fiennes, segue la documentatissima biografia di Nureyev pubblicata nel 2007 da Julie Kavanagh dopo un decennio di ricerche. È raro che nel raccontare un personaggio “stellare” il cinema si appoggi così fermamente al testo di uno studioso serio, e di questo va data lode a The White Crow. Espressione che in russo significa personaggio che spicca per contrasto, che è controcorrente.

L’assetto linguistico del film è insolito. I personaggi sovietici, che sono la maggior parte, parlano in russo, incluso come si è detto Fiennes nel ruolo di Pushkin. Quattro anni fa questo attore si è inserito in un cast interamente russo interpretando in lingua originale il ruolo di Rakitin nel film Un mese in campagna, tratto dalla commedia di Turgheniev, ed è stato elogiato da tutti i colleghi per la sua efficienza linguistica. Quando la troupe del Kirov arriva a Parigi, Nureyev conosce solo un po’ di inglese e insiste a usarlo con tutti (con accento russo, ovviamente); i francesi gli rispondono in francese o in inglese con forte accento gallico. C’è da chiedersi se il pubblico italiano, a parte i più accaniti ballettomani e gli ultimi “Rudimaniacs”, sarà disposto ad accettare questi dialoghi senza l’appiattimento totale di un doppiaggio onnicomprensivo,

Nureyev è il ballerino Oleg Ivenko, solista dell’Accademia di Stato di Opera e Balletto “M.Jalil” di Kazan; la somiglianza con il suo leggendario personaggio è buona (per noi italiani c’è anche un po’ quella con Gianni Morandi giovane) ed è molto bravo nei frammenti in cui “Rudy” prova o si esibisce.

Ci vengono raccontati i primi ventitré anni del leggendario danzatore, dalla nascita avvenuta notoriomente su un treno al giorno della fuga dal regime sovietico, con una frenetica alternanza di flashback che può lasciare un po’ confusi. Le sequenze che ne raccontano l’infanzia poverissima sono chiare: l’interprete è un bambino e il colore è un monocromo praticamente bianco e nero. Ma dai diciassette anni in poi subentrano il colore e Ivenko, e ci vuole sempre un paio di secondi per capire in che periodo ci troviamo e se siamo a Leningrado o a Parigi. Dato che il film arriverà nelle sale commerciali l’anno prossimo, dovrebbe esserci il tempo di riallineare cronologicamente queste scene scollegate.

Il protagonista è personaggio sfaccettato, dotato di un volitivo “ego” molto occidentale, più insofferente e ribelle all’autorità che capriccioso e isterico; affascinato dalla libertà dell’ovest più che dai comfort del capitalismo. La sceneggiatura accenna appena alla sua omosessualità, introducendo il suo primo amante a Leningrado, l’adolescente tedesco Teja Kremke (una scoperta della biografa Kavanagh) solo in due brevi scene. Più spazio hanno ovviamente il collega parigino Pierre Lacotte, solidale nella defezione (che qui è il bellissimo Raphaël Peronnaz) e la giovanissima ereditiera cilena Clara Saint, (un’inespressiva Adèle Exarchopoulos) che fu cruciale nella giornata della fuga dall’aeroporto, anche in quanto amica di André Malraux, allora ministro della cultura; e che lasciò credere alla stampa mondiale scatenata che la fuga di Nureyev fosse causata da un amore alla Romeo e Giulietta.

Il film sostiene la tesi che la decisione di fuggire in occidente fu quasi improvvisa e si concretizzò solo alla partenza dell’aereo della compagnia per Londra, davanti all’evidente intenzione delle autorità sovietiche di rimpatriarlo a tutti i costi e verosimilmente incarcerarlo, come punizione per aver visitato Parigi da solo o con danzatori francesi, notte e giorno. Qui la tensione crescente è molto ben sostenuta. (Segnalo che un interessante documentario della BBC, Dance to Freedom del 2015, con protagonista il danzatore russo Artem Otcharenko del Bolshoi, sostiene la tesi opposta: si sarebbe trattato di lotte interne del KGB, di una fazione decisa a screditare la gestione “khruscioviana”, e la polizia dell’aeroporto Le Bourget sarebbe stata allertata dal giorno prima. Il mistero rimane).

Hanno gradevolissima verosimiglianza le scene di balletto e di lezione; soprattutto queste ultime, anche perché il dimesso e malinconico insegnante Pushkin di Fiennes – profondamente sconcertato e avvilito dal tradimento del suo Rudi nella primissima scena – è ottimamente ricreato. All’anteprima del 21 ottobre al Curzon Cinema di Mayfair sono saliti in palcoscenico, dopo la proiezione, l’attore protagonista e il demiurgo Fiennes; il quale ha ricordato che è dall’epoca in cui interpretò Evgenij Onegin in un bellissimo e poco noto film del 1998 che si è innamorato della cultura russa, fino a recitare in quella lingua. E a farsi protagonista di una “missione ballettistica” originale e interessante.


 

 

 
 
 

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