L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Non fu sogno

 di Roberta Pedrotti

Mariella Devia e Gregory Kunde a Bologna offrono una lectio magistralis sull'arte del canto e dell'interpretazione, ricordando con classe suprema come nell'opera testo, musica, voce, dramma debbano essere un tutt'uno in cui tecnica ed espressione son facce della stessa medaglia.

BOLOGNA 12 maggio 2019 - Tranne in rari casi, per lo più legati a qualche occasione speciale, il grande galà lirico sembra un genere un po' fuori moda. Grandi voci, programmi eclettici, dispiegamento di forze corali e strumentali richiamano alla mente tempi passati e vederli integrati in una stagione sinfonica, fra Mahler e Brahms, Beethoven e Schumann, non è proprio cosa di tutti i giorni. Anzi, quando succede si avverte, nella sala gremita, la curiosa sensazione di trovarsi all'intreccio di pubblici musicofili abituati a non incontrarsi quasi mai, sentendosi parte di un'intersezione non troppo nutrita fra insiemi popolosi. Però, se quando succede ne vale veramente la pena, allora la serata sarà una serata memorabile, anche se all'empireo delle due voci soliste corrisponde una concertazione di Paolo Arrivabeni non proprio all'altezza per sensibilità di dinamica e fraseggio, con qualche svarione di troppo in orchestra nelle sinfonie di Nabucco e Norma e un coro ben preparato da Alberto Malazzi ma piuttosto greve nell'interpretazione di "Gli arredi festivi", "Gli aranci olezzano", "Norma viene" e soprattutto l'Inno del Sole dall'Iris di Mascagni (che ancora una volta diventa "Inno al Sole", dimenticando che è l'astro stesso a cantare nel simbolismo panico dell'opera).

Verdi, Giordano, Donizetti, Bellini, Mascagni. Il filo conduttore non sta tanto nel programma, sta negli artisti e nel loro modo di vivere la musica, di tracciare una continuità in una discontinuità solo apparente. Qui gli artisti sono, senza meno, due fenomeni, non solo per una virtù naturale che si fa allegramente beffe dell'anagrafe, ma soprattutto per devozione all'arte, rigore tecnico, stilistico, musicale, per sensibilità e intelligenza. Mariella Devia ha lasciato le scene operistiche ormai da due anni tondi, ma prosegue la sua attività concertistica e bene ha fatto il Comunale di Bologna ad assicurarsi una data nel suo calendario, tanto più che, coincidendo con le prove di Turandot, si può contare su un partner d'eccezione come Gregory Kunde, imminente Calaf cui ben si attaglia, dopo Divine Superbe e Stupende, il nomignolo melomane di SuperGreg. Ed è proprio Kunde quello che appare più spavaldo nel repertorio, spaziando da Andrea Chénier a Norma, dalla Forza del destino a Roberto Devereux. A ben pensarci, però, la storia ci insegnerebbe che tanta distanza, fra questi titoli, forse non c'è, ricordando, per esempio, che Enrico Tamberlik e Mario Tiberini sono stati i primi Don Alvaro a San Pietroburgo e Milano, ma anche celebrati rossiniani. Altri tempi, altre sonorità orchestrali, voci di cui non abbiamo nessuna esperienza su cui ragionare concretamente, si dirà, non a torto. Tuttavia, Kunde ci ripropone la questione in chiave contemporanea sia sul versante tecnico, sia su quello stilistico. Sicuramente, dopo la gravissima malattia che l'ha colpito all'inizio del secolo, il tenore statunitense ha dovuto ripensare anche la sua vocalità, ma non si può dire che abbia subito una metamofosi fisica: il belcanto, tanto praticato dal giovane e contraltino Kunde, non è di per sé repertorio per voci piccole, ma repertorio per voci perfettamente controllate. Per mantenere l'estensione, la duttilità minuta o funambolica con organici strumentali non imponenti, il belcantista di vaglia può gestire la sua voce e alleggerirla, selezionarne gli armonici, ma saprà anche, all'occorrenza, dispiegarne tutta l'ampiezza. Kunde non ha smesso di essere il belcantista di sempre, semplicemente oggi il meglio della sua vocalità si esprime liberando sonorità da lirico spinto: ecco l'arte tecnica nella sua massima espressione, una consapevolezza tale del proprio corpo e del proprio strumento vocale da poterne gestire ogni possibilità anche quanto a colore e volume.

Con la questione tecnica va di pari passo quella stilistica ed espressiva, perché questo controllo assoluto della voce è inscindibile da una sensibilità musicale che ne è causa nell'intenzione, effetto nell'espressione. Ecco, allora, che il percorso fra Verdi, Giordano, Donizetti e Bellini mostra tutta la sua coerenza: Pollione è vigoroso, potente, svettante e perentorio nell'acuto, ma è anche perfettamente inserito nell'estetica del primo Ottocento, varia con destrezza la cabaletta, inserisce tutte le appoggiature, le acciaccature, gli abbellimenti che lo stile belliniano richiede come strumento dell'autorevolezza, ma anche dell'amore e del turbamento, del proconsole. E in questo fraseggia, soppesa con arte di dicitore ogni fonema e ogni colore, svetta spavaldo e innamorato in “Eran rapiti i sensi | di voluttade e amore”, ma subito scandisce con perfetta, cupa articolazione “Quando fra noi terribile | viene a locarsi un'ombra”. Questa stessa intelligenza d'artista, d'interprete giunge a Don Alvaro, giunge ad Andrea Chénier, ne estrinseca il rapporto logico fra testo e intonazione, soppesa la parola, compenetra la logica del discorso, sia la dolorosa meditazione sulla vita che è “un inferno all'infelice”, sia l'ispirata perorazione politica di fronte all'aristocrazia. Nella sublime finzione dell'opera, l'amplificazione del senso nella musica lo rende, allora, ancor più vero, in un'esaltazione dell'arte oratoria, della mimesi teatrale, dell'introspezione poetica.

Come l'arte e la tecnica si alimentino l'un l'altra, non possano vivere l'una senza l'altra, lo ribadisce Mariella Devia, sfavillante con la Siola d'oro, preziosa spilla riconosciuta con il Premio Pagliughi, appuntata in petto. Il più grande talento, il più prodigioso istinto non è nulla senza gli strumenti per esprimerlo. Così, il soprano sciorina ancora con perizia assoluta trilli perfettissimi o chiude “Casta Diva” con una messa di voce che lascia sbalorditi oltre che per il controllo della gamma dinamica, per l'esattezza del gusto, per la misura perfetta che compie una preghiera, non esibisce una prodezza. Ecco qui, allora, il segreto della grandezza, far sì che tutto appaia naturale e necessario, che la tecnica sia mezzo e non fine. Tale è l'eleganza, la cura minuta del testo nella sua completezza di musica, parola e dramma, da far dimenticare quanto studio lo sostenga; eppure è palese, perché quel suono è pura tecnica. A differenza di Kunde, la carriera di Mariella Devia non ha vissuto rivoluzioni traumatiche, bensì, con il tempo, un progressivo passaggio a parti di maggior impegno drammatico, dalle fanciulle alle regine e alle sacerdotesse, ma sempre nello stesso ambito prevalentemente protoromantico. Sono rimasti i punti di forza nell'acuto, ché la propensione naturale non è stata lasciata a sé stessa ma innalzata dal sostegno tecnico, mentre la musicalità e il gusto continuano a far sì che un registro grave mai privilegiato non diventi punto debole, anzi, in un discorso che non perde mai forza e logica. Fin qui, la grande Devia che tutti conosciamo, la grande Devia che ha abbandonato le scene teatrali ma non la musica e che oggi si può permettere di sorprenderci perfino con qualche brivido in più. Eravamo abituati, anni fa, a vederla entrare nei concerti con cautela, con arie favorite (su tutte, “Occhi miei, piangeste assai” da Adelaide di Borgogna) di respiro più lirico. Oggi entra spavalda con la polonaise di Giselda dai Lombardi alla prima crociata, opera che avrebbe dovuto affrontare a Parma nel 2003 e a cui fu costretta a rinunciare per un infortunio, non avendo poi più occasione di recuperare il debutto preparato. Poche battute ma drammatiche e centrali, forse non le più comode per lei ma infilate con una decisione disarmante, lanciano la coloratura battagliera di “Non fu sogno” ed è già chiaro che la Regina è lì, e tiene il campo. Lo ribadisce con uno dei suoi più grandi personaggi, Lucrezia Borgia. Diciotto anni sono passati dal suo primo approccio, proprio a Bologna, e ancora una volta, con superbe e rinnovate variazioni, il suo “Com'è bello, quale incanto” s'innalza, capolavoro di ispirazione e legato, in un fiato prodigioso, che pare galleggiare nella sala, ma anche prender forma concretissima e teatrale.

Il belcanto è parola, è teatro: lo dice, cantando, Kunde, lo dice, cantando, Mariella Devia. Così, quando si uniscono nei duetti, tocchiamo quasi con mano la complessità di elementi che dà vita all'opera, che rende tale un artista e un interprete. Già dal punto di vista fisco, il tenore sovrasterebbe il soprano, eppure, anche nei gesti e negli sguardi più sfuggenti, il loro è un rapporto in continuo divenire: sia Elisabetta, sia Norma, si trovano in posizione di potere nei confronti di Devereux e di Pollione; entrambe sono innamorate, gelose, minacciose. E, tuttavia, non si replicano stereotipi: il modo in cui la regina d'Inghilterra accarezza sognante il braccio del suo condottiero non è il medesimo con cui la sacerdotessa d'Irminsul si avvicina al suo antico amante, né la minaccia nervosa sibilata dalla figlia “del tremendo ottavo Enrico” suona come la gioia pregustata della vendetta di Norma. D'altro canto, il conte di Essex, forte della sua vittoria sul campo di battaglia, mostra via via il fianco là dove i sentimenti rischiano di venire allo scoperto, mentre un proconsole prigioniero e sconfitto sembra subire la sorte senza speranza, riavvivandosi di fronte al pericolo dei figli prima, di Adalgisa poi. L'arte dei musicisti, il dominio della voce, la consapevolezza dello stile, del colore, del fraseggio sbalzano come uniche due scene che avrebbero molto in comune e poi giungono a ribaltare completamente la situazione in un bis che lascia tutti senza fiato.

Fra ovazioni, applausi ritmati, acclamazioni di un pubblico rapito ed eccitato, Devia e Kunde tornano in proscenio, l'orchestra attacca e un istante di sbigottimento si conferma quando il tenore scandisce “O soave fanciulla”. A settantuno e sessantacinque anni compiuti, questi due ragazzi al primo amore ispirano tenerezza, sono dolcissimi e veri. Non affettano, non fanno sorridere, se non di complicità per quel canto di conversazione sfumato fra “vi starò vicina” e “dammi il braccio, o mia piccina”. Piccina, Mariella-Mimì, lo è davvero, ora, e tocca il braccio di Gregory come, prima, Elisabetta e Norma non avevano fatto. Chi avrebbe mai immaginato, trent'anni fa, che Donna Fiorilla e Arnold, Idreno e Lucia ci avrebbero commossi così sulle note di Puccini? È forse solo uno sfizio, un gioco, un fuori programma fuori repertorio, ma da solo dice tutto dell'arte del canto, e del canto teatrale. Non per nulla, in quel pubblico vario di devoti d'ogni età all'opera o alla sinfonica, si trovano anche tanti colleghi: riconosciamo Giuseppe Sabbatini, cui lo sguardo corre di nascosto mentre si ascolta Roberto Devereux, c'è un'altra Mimì di oggi, Mariangela Sicilia, c'è il baritono Vittorio Prato, forse anche altri che non abbiamo notato, a condividere l'essenza dell'opera in una serata speciale.


 

 

 
 
 

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