L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Quadri di Bohème

 

di Andrea R. G. Pedrotti

Riuscita, al Teatro Filarmonico, la messa in scena pittorica del capolavoro pucciniano a cura di Pier Francesco Maestrini, mentre sul podio un avvicendamento d'emergenza porta fortunatamente una bacchetta del calibro di Jader Bignamini a condurre la produzione nel miglior modo possibile.

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VERONA, 9 novembre 2014 - Guardando il cielo nei dintorni della città di Verona, ancora umidi delle pioggie dei giorni scorsi e ora rischiarati da un tenue raggio di sole, viene spontaneo il pensiero: “questi paesaggi, questi colori, sarebbero degni d'essere rappresentati in un quadro impressionista”. Passano le ore e i cancelli del Teatro Filarmonico si schiudono innanzi al numeroso pubblico accorso per ascoltare La bohème.

Bohème, ancora Bohème: che cosa mai ci si potrà aspettare di nuovo da questo titolo che dal 1896 fa capolino nei cartelloni dei maggiori teatri del mondo. Poi ci si sofferma sulla locandina, consegnata dall'ufficio stampa della Fondazione poco prima dell'inizio dello spettacolo, quando l'occhio cade proprio sulla scritta che sarà il tema dell'intero pomeriggio: “Scene dalla Vie de bohème di Henri Murger”. Quel pensiero che, assolutamente per caso, aveva solcato le menti di chi avesse osservato la volta celeste con un minimo d'animo poetico, prende forma sul palco del Filarmonico, nell'allestimento a firma di Pier Francesco Maestrini.

Il filo conduttore dell'intera produzione è la pittura impressionista - con qualche accenno di neoclassico -, interamente pervasa da qullo spirito spensierato e melanconico al tempo stesso, tipico dei giovani e ambiziosi ragazzi nullafacenti, che caratterizzò il muovimento bohèmienne.

Pier Francesco Maestrini presenta un allestimento assolutamente tradizionale, ma completamente ripulito e senza alcun velo di polvere; i muovimenti sono quanto di più classico si possa desiderare e l'idea (che al giorno d'oggi è sovente inflazionata e indice di scarsa fantasia) di utilizzare delle proiezioni a raffigurare gli ambienti, spesso rappresentati dagli stessi interpreti quali bei tableaux vivants, risulta vincente. Le immagini non sono altro che le più celebri tele dei maggiori pittori francesi, ideali come fondale per gli ambienti di La Bohème, fondale non solo visivo, ma anche rappresentazione dell'animo e del sentimento di versi e note.

D'altra parte: l'opera non è forse scandita in quattro quadri? Marcello non è forse un pittore? Rodolfo non è forse un poeta? Schaunard non è forse un musicista e Colline non è forse un filosofo? Pier Francesco Mestrini non ha fatto altro che riprodurre in forma teatrale lo spirito dei quattro amici. Il primo quadro presenta sulla scena esclusivamente gli elementi fondamentali e indispensabili: la stufa per il fuoco, una scala d'accesso alla soffitta, un divano nel mezzo e il cavalletto per le tele di Marcello. Tutto il resto era in mano alle immagini, proiettate con perfetta sincronia con musica e sentimenti. Anche i costumi paiono bozzetti presi direttamente dai quadri che si susseguivano sul fondo del palco. Nella scena di Caffé Momus prosegue il susseguirsi delle tele, ma, dopo un cambio-scena, prende forma la più tipica via del quartiere latino: lanterne colorate in alto (anch'esse a fondersi con la macchia cromatica dei dipinti), qualche tavolino sulla sinistra, banchetti di ambulanti e molta variopinta confusione. Terzo atto nel solco della più salda tradizione, con uno steccato sul fondo e la neve che lieve cadeva sugli artisti impegnati, mentre, per il finale, si torna nella fredda soffitta dove è cominciata l'opera, cornice dell'amore travolgente fra Rodolfo e Mimì che vedrà la tragica fine dell'esistenza della giovane ricamatrice parigina. Le due coppie di innamorati sono poste abilmente a confronto nel terzo quadro, con un netto contrasto che le vede ai lati opposti del palcoscenico: la scena precedente fa da apripista alla comprensione, da parte dello spettatore, della differenza di come vengano vissute le due passioni: quella fra Marcello e Musetta, più frivola, e quella fra Rodolfo e Mimì, più tormentata. Al termine dell'opera il susseguirsi di emozioni e impetuoso sentimento non poteva che provocare ciò che è la cifra caratteristica di La bohème: quelle lacrime contro cui si è a stento combattuto in più momenti non possono essere trattenute, visto il crescendo emozionale dal chinar del capo di Mimì, spenta sul povero e misero canapé, accompagnato da un gioco di luci e immagini e quasi si ringrazia che l'opera sia terminata, completamente avvinti in essa. Merito e colpa di Puccini e di questa produzione.

Rodolfo era il tenore francese Jean-François Borras, il cui pomeriggio è caratterizzato da una prestazione in crescendo; inizialmente timido e vagamente avulso dall'azione scenica, dimostra, tuttavia, fin dal principio ottime intenzioni di fraseggio, prodigandosi in un “Che gelida maninadi discreto livello. Il suo canto è ben proiettato, ma sembra mancare quell'ulteriore slancio passionale che arriva puntuale dalla scena di Caffé Momus, esplodendo nel puro sentimento del terzo quadro e del finale, dove la sua prova diviene maiuscola, specialmente in occasione dei duetti con Mimì. Francesco Verna è, senz'ombra di dubbio, un lusso nel piccolo ruolo di Schaunard e ci auguriamo che presto possa arrivare a parti di maggior impegno: il timbro è bello, l'emissione morbida e efficace, l'abilità di attore indubbia e di altissimo livello. Mimì era Chiara Angella, della quale poco si può dire dal punto di vista vocale, vista la lieve indisposizione, che ne ha sicuramente inficiato la prova; comunque ha messo in mostra un fraseggio bello e curato, al pari della prova attoriale. Ottimo il Marcello di Alessandro Luongo: padrone del ruolo, ha offerto una prova in crescendo nella quale non si può riscontrare pecca alcuna. Probabilmente uno dei migliori baritoni in circolazione per questo repertorio, affronta l'intera scrittura al meglio con gran equilibrio di tecnica e sentimento, giovane scanzonato e amico fedele di Rodolfo, severo quando serve, ma sempre nel nome del grande affetto virile che lo lega al poeta. Stesso discorso per il Colline di Marco Vinco, cui va aggiunta una nota di merito per la bellissima esecuzione dell'aria “vecchia zimarra”.

Abbiamo scelto di attendere a parlare di Musetta, poiché, in questa produzione, la grisette parigina ha una caratterizzazione del tutto particolare. Ella giunge in scena accompagnata da due ballerini (i bravissimi Marco Fagioli ed Evghenij Kurstev), prima del suo celeberrimo Waltzer, danzato e cantato, a sottolineare la natura frivola della giovane, che, tolta un'ingombrante stola di ermellino, resta fasciata da un più comodo, ma meraviglioso, abito scuro rilucente, con mani e braccia in eleganti guanti bianchi. Se semplicemente descritta potrebbe sembrare un'idea al di sopra delle righe e poco efficace, invece la danza di Musetta presenta, con mirabile efficacia, a tutto il pubblico l'autentica psicologia dell'amata di Marcello; ragazza frivola, incline agli eccessi e poco affine ai legami, ma profondamente umana e sensibile. A ricoprire il ruolo, con il peso di una valorizzazione maggiore al consueto, è Daniela Bruera: abile nel ballo e sulla scena, palesa qualche pecca nella proiezione del suono, che, troppo spesso, risulta poco penetrante, specialmente nella zona acuta. Tutto sommato la sua prova si può dire più che sufficente.

Il cast era completato da Davide Pelissero (Benoît), Pietro Toscano (Alcindoro), Salvatore Schiano di Cola (Parpignol), Valentino Perera (Sergente dei doganieri) e Nicolò Rigano (doganiere).

Il buon esito dello spettacolo non sarebbe stato possibile se a dirigere i complessi areniani non fosse salito un maestro della levatura di Jader Bignamini: la sua lettura della partitura è una delle migliori che si siano ascoltate fino a oggi. Il fraseggio dell'orchestra è mirabile per tutta la durata dell'opera, le sezioni sono perfettamente equilibrate, in un amalgama di suono denso, ma mai eccessivo. Va ricordato che il maestro Bignamini è giunto a Verona in sostituzione di Xu Zhong - che ha dovuto rinunciare all'incarico per motivi di salute e a cui vanno i nostri più sinceri auguri -, quindi ha potuto dedicare solo pochi giorni di lavoro alle prove di questa Bohème. Sicuramente si è caduti in piedi, con la fortuna di potersi affidare alla bacchetta di uno dei più grandi direttori dei nostri tempi, ma si è ugualmente dovuto far fronte a una situazione di emergenza: uno spettacolo di tale impegno registico difficilmente poteva esser affrontato in pochi giorni, poiché dalla buca bisognava prestare attenzione, oltre che a coro e soli, anche alle proiezioni, che dovevano vivere in un alchemico unisono particolarmente periglioso: bello ed efficace se eseguito al meglio, poco sensato se gli interpreti non fossero stati all'altezza. Jader Bignamini è stato pienamente all'altezza del compito che gli è stato affidato e lo ha portato a compimento come meglio non si sarebbe potuto.

Come sempre il coro della Fondazione Arena di Verona si dimostra una delle eccellenze del panorama lirico internazionale, grazie alla professionalità (non ci stancheremo mai di ricordarlo) di Armando Tasso e di Andrea Cristofolini, che lo preparava in questa occasione. Ottima anche la prova del coro di voci bianche A.LI.VE., preparate da Paolo Facincani. Oltre al regista Pier Francesco Maestrini, ha partecipato alla messa in scena Carlo Savi, cui erano affidati scene e costumi. Eccellente lavoro di Paolo Mazzon come Lighting designer.

Per dovere di cronaca segnaliamo delle isolate, ma rumorose, contestazioni partite dal centro della galleria all'indirizzo di alcuni degli interpreti, prima dell'intervallo e al termine dell'opera. In tutta sincerità non comprendiamo il motivo di questi dissensi, vista la qualità della messa in scena e della buona riuscita musicale e visiva del complesso dell'opera.

 

foto Ennevi


 

 

 
 
 

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