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Guardare avanti, con Rossini e Verdi

di Roberta Pedrotti

Pian piano, riorganizzando e ripensando spazi e abitudini, si torna all'opera. Daniela Barcellona ci racconta il suo ritorno sulle scene, il passaggio dall'opera in smart working, ai concerti, alla produzione di Un ballo in maschera al Teatro Real di Madrid. È l'occasione anche per parlare di interpretazione e dell'approccio ai ruoli verdiani che sta affrontando sempre più assiduamente, dell'importanza dell'opera e della cultura nel mondo contemporaneo.

Eccoci dunque all'indomani del debutto come Ulrica. Cominciamo parlando proprio della ripresa dell'attività dopo la pausa forzata.

Dopo il lockdown ho cantato diversi concerti: la Nona di Beethoven a Napoli, la Petite messe solennelle a Trieste, un Galà all'Arena di Verona. Questa a Madrid è stata la prima opera e l'emozione è stata particolarissima, come tornare al debutto assoluto perché bisogna riprendere le abitudini, le routine, la forma mentis del lavoro in teatro, ma anche rimodularlo sulle nuove necessità. In scena lo spettacolo stesso deve essere ripensato e, per esempio, non posso leggere la mano di Riccardo, non posso toccarlo o avvicinarlo: siamo distanziati e rivolti al pubblico, Ulrica predice il futuro come se avesse delle visioni. Non è facile, ma in questo momento è importante andare avanti, trovare delle strade, dei modi per farlo in sicurezza. In teatro, anche a Madrid, ho trovato un'organizzazione molto scrupolosa, a ogni ingresso ci misuriamo la temperatura e igienizziamo anche le scarpe, i gel detergenti sono a disposizione nei camerini e in ogni spazio comune, ci vengono fornite mascherine, tutto si svolge nel rispetto delle norme. Fuori dal teatro, poi, io e mio marito Alessandro [Vitiello, pianista e direttore d'orchestra] facciamo una vita praticamente monacale! Non si può rischiare. Dobbiamo fare attenzione a tutte le nostre abitudini, anche alle piccole cose, i gesti quotidiani, come quando mi trucco per uscire e mi ricordo che, con la mascherina, il rossetto non servirà, ma lo metto ugualmente in borsa.

Lo faccio anch'io: non si sa mai! Ora, dopo questo ritorno sulle scene con Un ballo in maschera, mi pare che i prossimi mesi continuino tutti ancora sotto il segno di Verdi.

Sì, a fine anno tornerò alla mia amata Quickly a Bruxelles, poi nel 2021 ci sarà Azucena a Parigi. Per ora solo Verdi, perché, purtroppo, il debutto come Laura nella Gioconda è rimandato ma spero che la produzione della Scala, saltata per la pandemia, possa essere recuperata in futuro.

Ormai il tuo avvicinamento al repertorio successivo al Belcanto è sempre più consolidato e in Verdi stai spaziando fra parti contraltili come Ulrica o Quickly e altre più acute, come Eboli o Amneris. Come ti trovi?

Arrivare a Verdi dopo Rossini aiuta moltissimo. La tecnica di base è la stessa, ma cambia lo stile, l'emissione, il modo di cantare e in Verdi c'è più ampiezza, più tempo per pensare, mentre invece Rossini ti tiene sempre allerta, con il diaframma sempre sollecitato a sostenere l'agilità! Ti abitua a una rapidità di pensiero, azione e reazione che è utilissima in ogni repertorio, come il modo di lavorare sulla musica, sui più piccoli dettagli. Me ne rendo conto quando mi confronto con i cantanti giovani: chi ha compiuto un percorso a partire dal belcanto sembra in genere più pronto, più preparato a raccogliere le sollecitazioni dei direttori come a maturare una propria lettura analizzando la musica. Invece spesso chi parte subito con Verdi ha più difficoltà a entrare in certi meccanismi e ad acquisire autonomia nello studio musicale e del personaggio.

Mi viene in mente un tuo collega di un altro registro: Michele Pertusi. Se sulla carta certe parti potevano sembrare non adatte a lui, poi sulla scena ha sempre vinto per la classe, il fraseggio, la musicalità, la cura del dettaglio.

E tu citandolo mi hai letto nel pensiero. Michele è un modello, un esempio: con la sua eleganza, la sua morbidezza esprime moltissimo lavorando a fondo proprio nella musica, senza trascurare nulla, entrando nei minimi particolari.

I dettagli che poi sono quelli che fanno la differenza...

Certamente, e ti dirò di più: penso che in Verdi e in tutto questo repertorio sia fondamentale mantenere un certo distacco e che proprio Rossini lo insegni. Noi, naturalmente, dobbiamo trasmettere passioni ed emozioni, ma possiamo lasciarci andare troppo, lasciarci coinvolgere al punto di non mantenere il controllo. Se dai tutto cadi in trappola, devi sempre pantenere una lucidità, appunto, una forma di distacco. Quando vengono a mancare si rischia troppo e si vede da quanti cantanti si siano rovinati con un ruolo, una produzione sbagliata. Il Belcanto insegna a gestirsi in ogni tipo di repertorio, anche in termini di resistenza fisica. Mi sono sentita dire che Ulrica fosse difficile per la durata, essendo una parte molto concentrata, che compare un solo quadro ma lo canta dall'inizio alla fine, molto intensamente. Ma quando si viene da Semiramide, con un primo atto di due ore e un quarto, con una cavatina di sortita come “Ah quel giorno ognor rammento” subito seguita dal duetto con Assur... davvero non ci si fa caso!

A me è capitato da spettatrice: da ragazzina vidi il mio primo Falstaff quando già in teatro frequentavo Semiramide, Guillaume Tell o Matilde di Shabran. La prima pausa per cambio scena dopo il monologo dell'onore mi lasciò disorientata, non ero abituata a quadri così brevi!

Dopo aver cantato più volte Semiramide a me è sembrato breve perfino Il barbiere di Siviglia! Rossini è un allenamento sotto ogni punto di vista, anche di resistenza fisica. A volte mi chiedono se lo lascerò, ma non potrò mai smettere di cantarlo!

Allora non te lo chiederò, ma ti chiederò di parlarmi dei tuoi personaggi verdiani...

Li adoro questi personaggi per le loro sfaccettature. Un tempo pensavo che, essendo per lo più antagoniste, i mezzosoprani in Verdi fossero per lo più figure negative. E, anche qui, il tipo di scavo psicologico sviluppato su tanti personaggi en travesti rossiniani, eroi, guerrieri, innamorati, mi ha aiutata a entrare meglio in Ulrica, Amneris o Azucena... Ulrica per me è un po' una “strega buona, non dobbiamo fermarci al carattere infernale della sortita, all'invocazione a Satana: lei è scossa dalla profezia di morte, dispiaciuta, si dimostra solidale con Amelia, cerca di aiutarla come può Amelia con i suoi poteri e le sue conoscenze. Cerca di fare del bene. Amneris, poi, è una donna innamorata, piena di passione...

E mentre Aida muore comunque insieme a Radames, amata da lui, lei è sola, è sconfitta perché come principessa potrebbe avere tutto, tranne l'unica cosa a cui tiene veramente!

Esatto. È un personaggio tragico, commuovente: è vero che causa la condanna di Radames, ma lo fa in uno scatto d'ira, di gelosia, perché è innamorata e travolta dalla passione e pagherà con il rimorso per tutta la vita quel gesto istintivo. Di Azucena, poi, non parliamone... l'ho avvicinata pian piano, prima le arie in concerto, poi via via sono arrivata ad accettare di interpretarla nel 2021 a Parigi. Lì Rossini aiuta moltissimo: basti pensare a “Stride la vampa”, a come la voce deve rappresentare le fiamme con quei mordenti, quei trilli... Ma in tutta la parte il controllo, la duttilità della voce, l'espressione del Belcanto è fondamentale.

Ricordo che a inizio carriera ti chiesero Lady Macbeth...

Sì, avevo circa vent'anni, ero proprio all'inizio e ho rifiutato; me l'hanno chiesta ancora di recente, anche per un contesto importante e ho detto ancora di no. Non fa per me, non sono un soprano e anche se alcuni mezzi l'hanno cantata, non è proprio la mia vocalità. La carriera si costruisce con i no, non è solo un modo di dire: anche se all'inizio si può aver bisogno di lavorare, si cercano occasioni, un errore ti può distruggere. Poi ci sono dei no che diventano dei sì nel tempo, quando, come sento che sia per me Azucena, arriva la maturità, l'esperienza per affrontare una parte così importante sapendola gestire, e ci sono dei no che devono rimanere tali per sempre, come nel caso di Lady Macbeth,

A proposito di queste tue scelte ed esperienze, ti capita anche di tenere masterclass: qual è il tuo rapporto con i giovani cantanti?

Io preferisco non lavorare sulla tecnica, ovviamente qualche consiglio posso darlo, ma penso che sia meglio che questo aspetto venga curato da una figura esterna, come è stato con me, con mio marito Alessandro. Un buon pianista/direttore preparatore può conoscere ed educare la voce con la giusta oggettività, mentre cantante rischia di trasmettere anche i propri difetti o comunque le proprie abitudini e così nei master preferisco suddividere i compiti, insegnare in tandem: Alessandro mi affianca e lavora sulla tecnica, io soprattutto sull'interpretazione.

Quello che mi preme trasmettere è in primo luogo che dobbiamo dare emozioni ma non all'epidermide, dobbiamo arrivare al cuore, all'anima. Bisogna fare musica, non limitarci all'efffetto, non essere acrobatici. Vorrei che anche il pubblico lo capisse bene e non si fermasse all'aspetto esteriore. L'estetica non conta nulla senza il contenuto, come per gli strumentisti: il virtuosismo fine a se stesso, anche se ne vedo molto, non serve, non ha senso.

D'altra parte, Verdi stesso sottolineava che ogni nota “bella o brutta” che scriveva aveva un senso.

Ma certo: è così. E quel che conta è fare musica, dare un significato, non esibire degli effetti fine a se stessi. E non tutto deve essere necessariamente “bello”.

Come nel Sigismondo a Pesaro. Nel primo atto eri decisamente malridotta, seduta in terra vicino a un lettuccio da ospedale. Ma impersonavi un uomo impazzito perché crede di aver ucciso la donna che amava!

Quello spettacolo di Damiano [Michieletto] è bellissimo e valorizzava veramente un'opera che fino a quel momento non era molto apprezzata, purtroppo. Semplicemente, anche se ha spostato l'ambientazione al XIX secolo, ha rappresentato esattamente quella che è la storia, tutto aveva senso. Io ho cominciato lavorando con Pizzi, con De Ana, con un certo tipo di gestualità che si accompagna al senso del canto. Ecco, l'importante è che tutto abbia senso, che ci sia armonia. Se devo dire “ti amo” dando una martellata o con un gesto fine a sé stesso che non abbia una motivazione, allora c'è qualcosa che non va, ma Sigismondo è esattamente quello che abbiamo rappresentato a Pesaro, non importa se poi ci troviamo nel medioevo o nell'Ottocento. E poi c'era un'energia, un gioco di squadra stupendo. Ecco l'opera deve essere così, non come quando magari capita un direttore o un regista improvvisato e non ti lascia nulla. Per me uno spettacolo è riuscito quando il pubblico esce dal teatro parlando, discutendone, commentando anche animatamente. Quando, insomma, lascia un segno e non si esce pensando “dove andrò a mangiare?”. Questo rapporto con il pubblico è fondamentale, noi sul palco lo sentiamo moltissimo, sentiamo veramente un passaggio di energie.

Durante il lockdown, però, hai sperimentato anche una creazione a distanza, con Alienati per il il Coccia di Novara.

Sì, è stata una bella esperienza lavorare con il compositore e sentirsi ancora parte di una produzione, anche se in condizioni particolari. Ci siamo sentiti tutti uniti, una vera compagnia, e avevamo modo anche di discutere direttamente con gli autori delle nostre parti, per adattarle al meglio, anche se devo dire che nel mio caso non c'è stato praticamente bisogno di toccar nulla.

La cosa buffa è stata realizzare i duetti a distanza, registrando le parti separatamente: capitava che un collega mi dicesse “Sai stamattina ho duettato con te” e io rispondessi “Pensa, io in quel momento stavo facendo la lavatrice!”

Abbiamo inventato soluzioni e ora ci stiamo impegnando per andare avanti dal vivo, passo dopo passo: niente può sostituire il rapporto diretto con il pubblico.

Certo, ora qualche compromesso si deve accettare, gli allestimenti devono adattarsi, ma sto apprezzando molto lo scrupolo che constato nei teatri. Anzi, teatro, opera, concerti e musei sono i luoghi e le occasioni in cui mi sento più sicura.

Sia in Italia sia in Spagna ho trovato un'ottima organizzazione. Non si può scherzare: se succedesse qualcosa a qualcuno andremmo tutti a casa e poi è una questione di rispetto verso il prossimo. Ci sono gli asintomatici, c'è chi contrae la malattia per fortuna in forma lieve, ma c'è chi rischia moltissimo anche se sopravvive. Un allievo di Alessandro, un ragazzo cinese di 23 anni, ora non può più cantare, fatica addirittura a camminare!

Eppure una volta, in ascensore, ho chiesto a un signore di indossarla correttamente e lui l'ha fatto, ma borbottando che non serviva a niente. Che significa? Voler fare il trasgressivo a tutti i costi? Anche se una persona vuol credere che il virus non esista, abbia almeno il rispetto della regola e delle persone che, invece, fanno di tutto per cercare di evitare il contagio, che hanno a cuore la salute di tutti.

Io rimango sconcertata nel vedere, di fronte a quel che è avvenuto e non si è ancora concluso, tanti ragazzi comportarsi come se nulla fosse, tante persone andare alla ricerca della polemica e del complotto contro ogni evidenza, contro ogni umana solidarietà per chi soffre e a sofferto, perfino contrapponendo il proprio egoismo, o una ristrettezza di vedute, a quello che realmente si sta facendo per superare la crisi. E portare la mascherina può essere anche solo un gesto simbolico per dire che si ha a cuore il problema, per dimostrare rispetto.

Penso che ci sia anche un problema culturale. Si legge sempre meno e si perde la capacità di pensare con la propria testa, di farsi un'idea, ma si assorbe qualunque cosa propagandata a effetto, invece di cercare di capire quali siano le fonti attendibili, magari leggendo articoli anche in altre lingue, giornali internazionali...

E poi, mi fa paura il distanziamento anche emotivo dei ragazzi, il fatto che anche prima del Covid fossero sempre più isolati dagli schermi e in qualche modo anestetizzati rispetto al mondo che ci circonda, quindi alla ricerca più di sballo fine a sé stesso che di vero divertimento. Forse la colpa è anche di genitori troppo permissivi e protettivi, che cercano di evitare ogni possibile trauma, ogni contatto con la sofferenza... Ma la vita è anche sofferenza. Non dico, naturalmente, che la si debba cercare, ma non la si può rimuovere perché è parte di noi, della nostra maturazione come persone.

Da questo punto di vista, le arti, la letteratura, l'opera sono una risorsa straordinaria. Semiramide, Tancredi, Azucena, anche con le loro vicende apparentemente lontane dalla nostra quotidianità, ci permettono di conoscere e condividere un panorama straordinario di sentimenti umani, di passioni, dolori, speranze...

Senza dubbio. L'arte e la cultura sono la nostra risorsa più importante e lo stiamo vedendo in questo momento più che mai. Per questo è fondamentale andare avanti.

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