Incontro con Maria Pia Piscitelli

a cura di Ramon Jacques

La carriera di Maria Pia Piscitelli si divide prevalentemente fra Europa e America e spazia senza barriere di repertorio dal XVII al XX secolo.

Studio, passione e consapevolezza di sé e della propria voce sono le chiavi attraverso cui il soprano pugliese si racconta e ci parla della sua idea di teatro d'opera.

 

Quando hai deciso di fare del canto la tua carriera e come hai iniziato?

Si può dire che il “fuoco sacro” per l’arte del canto si sia trasformato in un vero e proprio lavoro in maniera piuttosto spontanea,ovviamente a seguito degli anni di studio che ci sono voluti per acquisire le giuste competenze tecniche per affrontare l’arduo mestiere del cantante lirico. Tuttavia c’è da dire che una particolare sensibilità verso la musica si è manifestata già dalla prima infanzia, anche se la passione per il canto si è rivelata verso i diciassette anni, quando ancora frequentavo il liceo classico. Inizialmente mi iscrissi a un corso di chitarra classica, e fu proprio grazie alle esercitazioni corali che la mio voce fu notata. Ero naturalmente dotata di una vocalità da soprano molto estesa e di una respirazione già corretta, qualità ideali per intraprendere lo studio del canto.

Come definiresti oggi la tua voce?

Consapevole: al momento sarebbe questa la definizione che darei alla mia vocalità. Agli inizi della mia carriera l’approccio con il canto era molto più istintivo, ma il passare degli anni e tutte le esperienze che ho fatto in questo campo hanno permesso che il mio bagaglio di competenze si ampliasse e che io prendessi totalmente coscienza della mia vocalità e soprattutto dello strettissimo rapporto che lega indissolubilmente la persona alla voce. Bisogna averne totale cognizione: la voce è il nostro strumento, nonché una sorta di amante legata a noi da un rapporto assolutamente simbiotico. Secondo me è importante badare anche a quest’aspetto di affinità del cantante con la voce, non perché ci sia scissione tra l’uno e l’altra, ma proprio perché la voce è un tornasole dello stato psico-fisico della persona e rapportarsi ad essa può essere fortemente terapeutico.

Le regine delle opere di Donizetti, Elisabetta, Maria Stuarda, Anna Bolena e altre figure femminili come Lucrezia Borgia sono sempre stati ruoli che hanno affascinato i soprani belcantisti. Come ti avvicini a questi ruoli e come pensi che possano dire qualcosa di nuovo al pubblico d'oggi?

Essendo ruoli “elegiaci”, per così dire, è importantissimo mantenere un totale controllo della voce e una padronanza tecnica tale da poter affrontare una scrittura vocale così impregnata di regalità ,in una resa musicale e scenica che deve risultare nobile e incisiva al contempo. E’ fondamentale comprendere l’importanza di quell’aplomb regale che le “regine belcantistiche” devono mantenere, dal momento che la musica stessa lo impone: l’eleganza del fraseggio è basilare, in un equilibrio che è frutto di un lavoro di “limatura”…l’eleganza d’altronde consiste proprio nel saper togliere, dove necessario. Prescindendo invece dal discorso puramente tecnico legato all’approccio musicale che si deve attuare nell’elaborazione e interpretazione di questi ruoli, si può affermare che ogni personaggio del panorama del melodramma, e non solo questi ruoli della scrittura donizettiana, possa comunicare un messaggio universale presente proprio nella componente più intima di ciascun personaggio che si riferisce direttamente a un archetipo classico. Ecco, si può dire che ogni ruolo contenga un messaggio e che l’interpretazione di tale messaggio varia a seconda del grado di sensibilità di colui che lo percepisce.

Canti sempre più spesso nei teatri più importanti dell'America Latina. Come e quando è iniziata questa relazione così stretta con questi teatri?

La mia prima esperienza sudamericana risale a più di dieci anni fa; precisamente nel 2000,quando cantai nel ruolo di Norma al Teatro Municipal di Santiago in Cile. Da allora la mia collaborazione con i vari teatri del territorio si fece sempre più intensa e gratificante: Elisabetta nel Roberto Devereux ed Elisabetta di Valois nel Don Carlo sempre a Santiago; ho cantato da protagonista ancora in Norma, Simon Boccanegra e Don Carlo al teatro Colon di Buenos Aires, e sempre a Buenos Aires interpretai il ruolo di Amelia in Un ballo in maschera. Mi ricordo con particolare piacere che proprio in America Latina ho avuo la possibilitàè di debuttare come Maddalena in Andrea Chénier al Teatro Argentino di La Plata, e come Tosca al Teatro Solis di Montevideo. Insomma, credo che il mio “matrimonio” con il mondo sudamericano dell’opera lirica sia stato estremamente produttivo,stimolante e felice.

Come percepisci se c'è una comunicazione col pubblico? C'è una differenza tra il pubblico europeo e quello sudamericano?

Penso che ogni cantante, nel momento stesso in cui si apre il sipario e si inizia a cantare la prima nota, si metta totalmente a nudo dinnanzi al pubblico: è proprio in quel momento che si stabilisce una sorta di empatia, un magnetismo, un filo elettrico che scorre tra chi canta e coloro che sono seduti ad ascoltare. Si stabilisce immediatamente una comunicazione con il pubblico che è in continua evoluzione durante lo svolgimento dell’opera. Tenendo conto di questo, posso dire che il pubblico sudamericano è più espansivo nel manifestare il coinvolgimento suscitato dalla musica e dalla messa in scena, come si suol dire, è più “caliente”; il pubblico europeo è ugualmente coinvolto, ma molto più pudico.

Qual è il ruolo che più si addice alla tua personalità?

Ogni ruolo che indaga nell’intimo dell’animo femminile mi è molto caro. Amo le donne forti e istintive,capaci di azioni estremamente volitive ed incisive e altrettanto capaci di lasciarsi trasportare dalla dolcezza e da slanci di sentito romanticismo, nel senso più ampio del termine. Inutile dire che tutte queste caratteristiche sono assolutamente affini al mio temperamento: mi sono sempre sentita una “tragedienne” e quando posso “immergermi” nello spirito più profondo delle varie eroine del melodramma, lo faccio con estremo entusiasmo. Chiaramente ci sono dei ruoli ai quali sono più affezionata, come per esempio Norma, che personifica una moltitudine di aspetti dell’animo femminile: quello sacro, poiché è una sacerdotessa; quello di donna, in quanto affronta una amore combattuto e addirittura quello di madre. Sono molto legata anche ai personaggi che tracciano una precisa evoluzione del proprio carattere in itinere, cambiando le proprie peculiarità nel corso dell’azione e maturandone una piena consapevolezza; e a questo proposito potrei citare Leonora del Trovatore, Maddalena in Andrea Chénier, Tosca: tutte donne accomunate da un eroismo dirompente e mai in balia degli eventi, poiché capaci di affrontare anche la morte con estremo coraggio e volontà d’azione.

Il tuo rapporto coi registi e con le messe in scena "moderne" di opere classiche.

Ogni progetto registico, purchè sia supportato da precise cognizioni di causa, troverà la mia più totale approvazione, sia che si parli di una regia innovativa sia che si tratti invece di una regia vecchio stile. Ovviamente sono del parere che l’innovazione fine a se stessa sia inutile: la regia di un’opera lirica deve mantenere con essa una certa conformità, quindi ogni idea “modernizzante” deve ben adeguarsi al contesto drammaturgico e soprattutto deve essere resa scenicamente in modo tale che ogni singolo elemento del pubblico possa comprenderne il significato e la levatura. Inoltre penso che l’impatto visivo in uno spettacolo sia importantissimo e il pubblico deve essere colpito a livello sensibile; intendo dire che il teatro, specie se si parla di opera lirica, deve stimolare totalmente lo spettatore ,il quale deve vedere l’idea registica materializzarsi dinnanzi a sé…Purtroppo in quest’epoca c’è poco spazio per l’immaginazione: vengono predilette forme di intrattenimento immediate, come il cinema o la televisione, che richiedono un minore sforzo immaginativo.

Come ho già detto in precedenza,sono arrivata a un punto in cui ho la piena consapevolezza di me stessa a livello professionale e tale consapevolezza l’ho raggiunta proprio grazie a una serie di esperimenti. Ogni ruolo è per me una sfida con me stessa, un esperimento appunto, un modo per condurre un’analisi ben precisa su due personalità che devono entrare in commistione, cioè la mia personalità di donna in primis e di cantante, e quella del personaggio che devo impersonare. In sintesi, rendere un personaggio significa proprio elaborare in se stessi “l’alterità” di quello stesso personaggio in modo che la propria identità possa collimare con quella del personaggio da rappresentare…E’ un lavoro quasi terapeutico, un compromesso tra la propria psicologia e la psicologia che attribuiamo ai personaggi che andiamo ad interpretare. Spesso accade che non sia io a scegliere il ruolo, ma che sia il personaggio a scegliere me, offrendomi il pretesto per affrontare sfide con me stessa sempre più stimolanti.

I tuoi progetti. Ti piacerebbe cantare dei personaggi che non hai ancora cantato? Hai qualche sogno nel cassetto?

Mi piacerebbe cantare il famoso Trittico pucciniano , Lady Macbeth e infiniti ruoli ancora tutti da scoprire, anche se mi piacerebbe sperimentare la mia verve comica.

Quali sono le difficoltà che incontra oggi il belcanto, secondo te, e se ce ne sono, che cosa faresti per risolverle? Ad esempio: qual è lo stato delle scuole di canto in Italia e in Europa e come un giovane artista può approfondire il suo bagaglio tecnico e culturale?

Inutile dire che effettivamente questo sia un periodo critico sotto diversi aspetti. Non si sta verificando solo una crisi finanziaria, ma una vera e propria crisi concettuale nel mondo dell’opera; infatti nella mia esperienza di docente ho constatato che sono sempre di meno i giovani veramente appassionati, pronti a rischiare, studiare e a mettersi in discussione seriamente, e troppo spesso lo studio del canto, questa meravigliosa arte, si riduce meramente a un hobby; quando si inizia a lavorare in teatro invece, è facile trovare persone mosse non tanto dalla passione, quanto dal desiderio egoistico di affermarsi. Penso che sia assolutamente necessario recuperare quel “fuoco sacro” di cui parlavo in precedenza e celebrarne il valore con il proprio canto: ogni cantante deve recuperare questo concetto e affrontare con l’entusiasmo di un bambino il proprio lavoro. A chi inizia e a chi si trova all’inizio della carriera consiglierei vivamente di studiare, studiare, studiare: il canto è un lavoro su se stessi ed è una sfida continua con se stessi che non ha mai fine, per arrivare almeno a consolidare quella sicurezza tecnica che è basilare…E poi bisogna avere calma: mai forzare i tempi.

E il mondo oggi... ha bisogno dell’opera?

Il teatro è la creazione di un mondo speculare e l’uomo ne ha sempre avuto bisogno. L’opera lirica è una realizzazione teatrale arricchita dalla musica, che è la più metafisica delle arti, nonché strumento per nobilitare le anime…Quindi la mia risposta è sì: il mondo, e soprattutto il mondo attuale, ha assolutamente bisogno dell’opera. Magari le persone,guardando e immedesimandosi in un mondo parallelo e imparando ad ascoltare la musica che quel mondo offre, impareranno anche ad ascoltarsi di più e a esplorare più a fondo l’interiorità della loro anima.