Trasportato dall'emozione

di Tatiana Belova

Nicola Alaimo si racconta: gli studi, il repertorio, i grandi modelli storici, il rapporto con il disco, le emozioni del palcoscenico e della vita, da Rossini e Verdi, fra sfide, studio, passioni e desideri.

Nato a Palermo, quanto si sente siciliano, italiano, europeo?

Artisticamente parlando mi sento figlio del mondo, io viaggio tantissimo. Non mi piace molto viaggiare nel senso materiale del termine: prendere aerei, treni... Però mi piace moltissimo visitare nuove città: qualcosa di meraviglioso. Affettivamente mi ritengo molto siciliano. Sono nato a Palermo proprio di fronte al Porto: lì c'è la clinica dove sono nato. Più palermitano su di me, non c'è nessuno. È pur vero che da dodici anni ormai vivo nelle Marche, prima ad Ancona e adesso da sei anni a Pesaro. Il comune di Pesaro mi ha conferito della cittadinanza onoraria, mi sento molto stimato dall'amministrazione comunale, dalla città di Pesaro, e per me è un grande onore, quindi sono molto contento. Però è chiaro che non rinnego le mie radici. Io sono siciliano purosangue, insomma.

E per la scuola vocale?

Ho sempre studiato fin piccolo, sempre emulato, “scimmiottato” i miei zii, quindi Simone, Vincenzo, Vittoria, e mia sorella che ha dieci anni più di me. Quando lei è entrata in conservatorio, ascoltavo i suoi studi prima di violino, poi di pianoforte e poi di canto. Sono cresciuto così, e i miei studi vocali non potevano che arrivare da lì. Sono entrato in conservatorio a Palermo per studiare lo strumento, il pianoforte, ma dopo due anni sono scappato via perché la mia insegnante di pianoforte, la professoressa Rizzuto, era veramente terribile. Io facevo i miei esercizi, e lei mi diceva: "Guarda, non sai, non sai suonare! Perché vuoi fare il pianista? Cambia mestiere. Tu... mi hanno detto che vuoi cantare. Ecco, vai a cantare le canzoni napoletane. Perché il pianoforte non è una cosa per te." Molto carina, voglio dire! [ride,ndr.] Quindi io facevo i miei esercizi con le lacrime agli occhi e cercavo di impegnarmi. Però era vero, che io volevo cantare. Io ho sempre voluto cantare nella mia vita. Lo strumento era necessario, il solfeggio era necessario perché una base musicale è fondamentale. Ma a ogni lezione lei mi mortificava davanti anche agli altri alunni. C'erano gli altri studenti che ridevano alle mie spalle, e io suonavo e piangevo. E dopo due anni ho mollato. Ho continuato dopo i miei studi di pianoforte in privato, ma non ho mai preso il diploma.

A 16-17 anni, ho cominciato a studiare vocalmente seriamente con mio zio Simone Alaimo e con sua moglie Vittoria Mazzoni. Con zio Simone studiamo tuttora, ovviamente non si smette mai di studiare. Studiamo più l'approfondimento del personaggio, e quindi fraseggio, l'interpretazione, ogni virgola e ogni puntino, le dinamiche, eccetera. Con Vittoria, invece guardiamo molto di più la tecnica vocale. E lei per me è fondamentale. Se io canto da 22 anni, lo devo soprattutto a lei.

E lei è contento d’essere baritono?

Sì, certo, certo! Ogni tanto scherzando, dico a mia moglie: "Pensa se io fossi stato tenore, avrei mille donne... e poi avrei case ovunque a Capri, a Ischia, a Cortina d’Ampezzo". In realtà non ci lamentiamo della nostra vita e mi piace molto la corda baritonale. Il mio strumento preferito, che avrei voluto studiare ma senza avere il tempo perché a 17 anni di fatto ho cominciato a lavorare, è il violoncello. E il violoncello è la corda baritonale per eccellenza, con il suo suono caldo!

E adesso il suo repertorio è abbastanza stabilito.

Sì.

E in futuro?

Il futuro dunque io penso che la mia carriera si possa un po' paragonare per certi versi a quelle che hanno fatto alcuni grandi. Nomi del passato che sono per esempio Giuseppe Taddei, Renato Capecchi o addirittura Sesto Bruscantini... È chiaro che non mi paragono a loro, che sono stati dei mostri sacri: non mi permetterei mai. Ma sono dei modelli per la costruzione della carriera: erano dei grandissimi artisti che riuscivano ad alternare il repertorio buffo, per esempio, con quello più serio. Io ho nella testa un magistrale Sesto Bruscantini che fa un Dulcamara meraviglioso, un punto di riferimento. Però ho anche in mente un Sesto Bruscantini che canta Rigoletto. Ho ascoltato tanti Rigoletto nella mia vita, ovviamente: Leo Nucci, Bruson, Manuguerra, Cappuccilli, Bastianini... ma Bruscantini mi è rimasto scolpito nel cuore proprio perché lui scolpiva ogni parola. Ogni parola, ogni frase aveva un senso. Il Rigoletto di Bruscantini è una lezione di canto e io l'ho preso come mio punto di riferimento per il mio debutto a Marsiglia in quest'opera. È stato veramente un colpo di fulmine; dall'inizio, da " In testa che avete, Signor di Ceprano?". Lo dice, il pensiero è concentrato sulla parola, non sul mostrare una voce che, certo negli anni '60, nel fiore della carriera, era spettacolare. Sì, la voce era incredibile, ma con un'intensità, un’interpretazione che si può toccare con mano anche ascoltandola solamente. Fantastico! 

Ecco, questo è il mio modello, anche per l'alternanza con i ruoli buffi, che sono un po' la mia predilezione e la mia base. Il Rossini buffo è fondamentale per me e non credo che cambierò mai. Sono nato artisticamente con Rossini, interpretando Dandini nella Cenerentola. I ruoli buffi mi hanno sempre accompagnato e ci saranno ancora: Dandini e poi Alidoro, Taddeo nell’Italiana in Algeri, e Geronio nel Turco in Italia, e poi Il viaggio a Reims, e don Bartolo, e Figaro... Subito dopo il Guillaume Tell a Lione, in autunno, sono volato Amsterdam per il mio primo don Magnifico nella Cenerentola. Quindi posso dire che nella Cenerentola ho cantato tutti e tre i ruoli mi sono trovato sempre benissimo. Mio zio Simone mi diceva sempre: "Tu sei nato con l’agilità. Nessuno te la può insegnare, l’agilità." Non è un percorso semplice: ci vuole molto tempo. Io ho questa propensione, fin da quando ho cominciato. Quando ero piccolino, imitavo Cecilia Bartoli, con tutte sue fioriture [Canta comicamente "Non piu mesta accanto al fuoco" dalla Cenerentola. ndr] e mi piaceva tanto farlo!

Però è anche chiaro che i ruoli seri sono una mia ambizione. Nel futuro ci sono. In agenda ho due impegni molto importanti per quanto riguarda i personaggi drammatici, soprattutto quelli verdiani: Nabucco a Ginevra, il mio debutto nel 2022 e stiamo ancora trattando. E Macbeth, un altro personaggio che mi attrae.

Quando un personaggio mi affascina così tanto, allora siamo a metà strada. Vocalmente può essere difficile, però quando io sento il personaggio, sento che può diventare un mio cavallo di battaglia, e poi c'è l'idea di poter interpretare Shakespeare... Sì, per me è molto importante guardare al personaggio, non solamente alla parte vocale. Così è stato con Falstaff. È un ruolo che sento mio, per il quale ho vinto anche il premio Abbiati dopo l'interpretazione alla Scala. Quando ho aperto la prima pagina di Falstaff, è stato un amore a prima vista. Con Macbeth è la stessa cosa, ma Macbeth ha una scrittura vocale un po' diversa. E quindi bisogna aspettare:  parliamo del 2024/25. Avrò 46 anni, prima che cominci a ballare la voce si può fare!

Macbeth chiede un grande regista.

Sì.

E con chi lo farà?

E... non si sa. È ancora troppo presto per parlarne perché siamo ancora proprio in fase di trattative. Sicuramente ci sarà un direttore che mi conosce. Se devo fare un debutto del genere, come è stato con Rigoletto, vorrei un direttore che mi conosca molto bene, le mie potenzialità e i miei limiti per poter lavorare insieme al meglio

Il suo repertorio è principalmente italiano; un po' francese, se parliamo di Tell. E quello tedesco o russo?

Be', guardi, allora... È difficile perché io sono un italiano del Sud. E mi dispiace ammetterlo, ma noi italiani del Sud con le lingue straniere siamo molto, molto testoni. Non le impariamo facilmente: è difficile per noi. Non so perché, ma per me è così, è la verità. E quindi è nei miei sogni, per esempio, cantarePapageno. È un sogno nel cassetto, ma come si fa? Ci sono tutti quei recitati in cui devi veramente essere perfetto. Oppure penso a due opere del grande repertorio russo: Evgenij Onegin e La dama di picche, nel ruolo che cantava Hvorostovsky, Dmitri. Perché io ho pianto guardando un vecchio VHS della Dama di Picche con Domingo e Hvorostovsky al Metropolitan: un'interpretazione che secondo me era magistrale e una musica che è straordinaria. Quindi, questi questi sono dei ruoli che mi piacerebbe moltissimo affrontare. Ma come si fa con la lingua? Molto difficile, molto difficile. Ho avuto tanti problemi anche col francese. Però, il francese, pur con le sue difficoltà, mi è sempre parso più "malleabile", più "tranquillo" rispetto a tutte le altre. Per questo, devo ringraziare anche la coach che ho avuto nel 2013 ad Amsterdam nel Guillaume Tell, per il mio debutto in quest'opera. Abbiamo fatto un mese e mezzo di prove! Dopo le prove di regia facevamo un'ora al giorno con la coach, Florance Dager: è stata fondamentale per me, fondamentale. Però con le altre lingue è veramente difficile. In tedesco ho cantato solo la Nona di Beethoven e dei Lieder di Mahler, che sono un capolavoro e di cui ho un bel ricordo anche per la collaborazione con Michele Mariotti, che dirigeva quel concerto.

Preferisce un ruolo comico o tragico?

Oddio! Questa è una domanda che mi hanno fatto spesso, ma oggi come oggi non saprei rispondere. Devo dire che secondo me più difficile è far sorridere, e allora a me piace, mi piace di più far divertire il pubblico. E quindi, per certi versi, prediligo i ruoli comici, buffi. Se riesco a far sorridere il pubblico allora son contento. Si vede che ho ottenuto quello che volevo. Si vede che ho fatto bene. Mi piace molto recitare in scena, anche a discapito della voce ogni tanto perché magari in certe scene domina più l'interpretazione che il canto e questo soffre un pochino. Però preferisco così, perché non mi piace stare impalato in scena e pensare solamente ai suoni, alla posizione, alla proiezione... È importante, è fondamentale, chiaro. Noi abbiamo studiato una vita, studiamo ancora tuttora per questo. Però io mi lascio molto trasportare dall'interpretazione. Io la penso come Giuseppe Verdi, che parlava sempre di attori e non di cantanti. Per me questo significa molto, è fondamentale: mi è sempre piaciuto recitare e uno dei complimenti più belli che abbia mai ricevuto è venuto da un grande attore italiano, Remo Girone. Lui mi ha detto: "Oggi tu sei un attore in scena. Sei straordinaria, parli solo con gli occhi". Detto da lui, mi ha fatto molto, molto felice.

Siamo d'accordo.

Non bisogna, però, far passare un messaggio sbagliato. La tecnica vocale è importante, i suoni ben emessi sono importanti, sono fondamentali. Se vogliamo è un po' un mio difetto quello di lasciarmi trasportare dall'emozione, dal momento, dall'interpretazione. È stato così con La cena delle beffe di Giordano alla Scala: una scrittura vocale terrificante, difficilissima, forse una delle cose più difficili che abbia mai fatto in vita mia. Non conoscevo l'opera e, quando me l'hanno proposta, ho detto: "Beh, mandatemi lo spartito perché non so di cosa si tratta." Nel frattempo dalla mia agenzia mi hanno suggerito di leggere il testo e vedere il film La cena delle beffe con il grande Amedeo Nazzari. Prima ancora prima di vedere lo spartito, vado a vedere il film, rimango folgorato dal personaggio di Neri Chiaramantesi. Il personaggio mi ha letteralmente conquistato, ho chiamato l'agenzia e... "Non me ne frega niente, anche se sarà difficilissimo, accetto, dite alla Scala che va bene, accetto." Poi ho visto lo spartito... Oddio aiuto! Però ormai avevo detto di sì. Mi sono buttato a capofitto, ho studiato per un anno la parte. Temevo anche certi costumi dell'epoca, ma ero fiducioso che Mario Martone, un grande regista, non mi avrebbe messo in calzamaglia! Ed è stato un successo strepitoso, veramente meraviglioso. Però, sebbene l'opera sia breve,  è veramente molto pesante, per il baritono e per il tenore soprattutto. Supplivo alla mancanza di quello che possiamo chiamare "pathos vocale verista", che io forse non ho, con l'interpretazione. Ed è andata molto bene, grazie al Cielo. È stata una delle esperienze più belle della mia vita, scenicamente parlando, interpretativamente parlando. È stato bellissimo il lavoro che ha fatto Mario Martone, con le scene di Margherita Palli. E' un peccato solamente non aver realizzato il DVD, perché è un titolo piuttosto raro. 

E a proposito del DVD. C’è la differenza tra l’esistenza scenica per lo spettacolo ordinario o per trasmissione o registrazione video?

Secondo me sì. Secondo me la differenza è sostanziale perché è una cosa è venire in teatro e ascoltare dal vivo i cantanti, un'altra cosa è ascoltare un DVD o un CD con i microfonini per catturare il suono e tutte le varianti del caso. Credo che questo tipo di tecnologia ci metta un po' più in ombra, non so se mi spiego: gli armonici della voce che si possono ascoltare in teatro in una registrazione vengono un po' a mancare. Poi ci sono delle voci che sicuramente sono più fonogeniche e quindi vanno benissimo. Ci sono delle voci che, invece, non sono altrettanto adatte all'incisione. Io ho una di quelle voci. Ho fatto due dischi nella mia vita, ma non ne sono pienamente soddisfatto: Belisario di Donizetti con Opera Rara è stato un'esperienza bellissima, però riascoltandolo non mi piaccio, si perdono tanti armonici secondo me, come poi nel disco Largo al Factotum in cui canto il repertorio buffo rossiniano. Io non ritengo di avere una voce fonogenica, quindi preferisco fare teatro e basta.

Al cinema a Mosca l'ho vista in Simon Boccanegra da Parigi e ne sono assolutamente felice.

Grazie! Quel Simon Boccanegra era un po' strano. Lo spettacolo di Calixto Bieito aveva una sua idea, una sua collocazione, ma non è piaciuto molto...

Preferisce nel Boccanegra Paolo o Simone?

Simone.

Perché?

Musicalmente è proprio tutta un'altra storia. Il finale o le scene con Amelia/Maria sono qualcosa di magico, come il finale quando lui benedice i due sposi e la figlia e poi muore: straordinario. Poi, insomma, è anche il personaggio del titolo. Ad ogni modo mi sono divertito a fare la parte del cattivo: Paolo è un po' il precursore di Iago, solo che Iago è molto più elegante, Paolo un po' più volgarotto.  La prima volta che ho cantato Paolo è stato per il mio debutto al Metropolitan con Levine, e c'era Dmitri [Hvorostovsky]. Ricordi meravigliosi. Però, ecco, con Simon Boccanegra puoi trovare tanti, tanti, tanti colori in più. C’è la delusione e la rabbia, l'amore, c'è tutto. Un ruolo fantastico. È uno dei miei personaggi preferiti: sta nella mia top ten, diciamo cosi.

Chi è il Suo Simone preferito?

Cappuccilli. La produzione storica di Strehler che ha fatto alla Scala con Abbado è ormai diventata un punto di riferimento. Cappuccilli, sapeva sicuramente cantare, aveva una vocalità molto importante, molto estesa, però aveva bisogno di grandi direttori che lo plasmassero in maniera radicale, come sentiamo in tante registrazioni ormai storiche. Cappuccilli con direttori meno interessanti e stimolanti quanto a fraseggio, secondo me, non dava il massimo. Nel Boccanegra come in Macbeth, per esempio, con Claudio Abbado trova veramente la sua massima espressione. Si narra che Abbado soffrisse un po' perché Cappuccilli non voleva mai respirare. Aveva questi polmoni d'acciaio e il maestro non sapeva mai quando avrebbe preso fiato e pare ne soffrisse un pochettino. Ma che grande registrazione, che cast! C'è un altro Boccanegra che mi piace molto come interpretazione, Tito Gobbi. E' stato proprio un grande baritono, anche se penso abbia dato molto più per l'espressione più che per la voce: lui era veramente un attore e il suo Scarpia è uno dei capisaldi dell’opera.

Vorrebbe cantare un'opera scritta appositamente per Lei?

Se mai farà... se mi faranno questo onore, perché no. Non lo so se avverrà mai, però...

E qual soggetto preferirebbe, chi potrebbe essere il compositore? Se vogliamo sognare...

Bella domanda. Un sogno?

Un sogno, sì.

Sinceramente non ho mai pensato a un'ipotesi del genere. Non saprei. Ci sono dei ruoli, dei grandi compositori che vorrei cantare nel futuro, ma a un ruolo nuovo scritto per me non ho mai pensato.

C’ è bisogno di nuovo repertorio?

Sono d'accordo su questo, sono d'accordo. Bisogna andare avanti sicuramente, è giusto e sacrosanto. Ci sono dei compositori che stanno facendo cose molto interessanti. Adesso mi limito a citare quelli italiani che conosco perché confesso di non avere una grande esperienza in questo senso: Marco Tutino, per esempio, Marco Betta, lo stesso Azio Corghi continuano a comporre. Ho visto un'opera di Marco Tutino a Firenze, Le Braci, che è straordinaria e sono uscito dal teatro felice perché c'è ancora speranza, ci sono nuovi compositori, e così bravi. Ho cantato un'opera di Azio Corghi alla Scala, Il dissoluto assolto, che sarebbe la storia di Don Giovanni al contrario, non "punito" come in Mozart. Vocalmente andava bene, non era un problema, ma musicalmente era di estrema difficoltà: ho studiato tantissimo. Era il 2005 e doveva dirigere Riccardo Muti, ma in quell'anno il maestro lasciò improvvisamente il teatro e siamo rimasti con un pugno di mosche in mano. La produzione è stata cancellata a rimandata all'anno dopo. Quindi, la prima slittò al 2006, purtroppo senza Muti, ma con Marko Letonja ed è stata ugualmente un'esperienza bellissima, anche per una meravigliosa regia di Giancarlo Cobelli. Però, ripeto, musicalmente assai faticosa. Quindi posso dire anche nel mio curriculum di aver cantato un'opera contemporanea. Però è difficile, molto difficile. Almeno, io credo di non avere una particolare propensione per questo repertorio. Ricordo che quando ero nel coro del teatro Massimo di Palermo abbiamo preparato Moses und Aron di Schoenberg studiando per mesi e mesi, moltissimo perché il coro è protagonista in quest'opera, ma la sua parte è di una difficoltà veramente tremenda. Siamo arrivati preparatissimi ed è stata un'esperienza dura quanto bella. L'opera è un vero capolavoro. In generale, ho un gran bel ricordo degli anni passati nel coro, che mi hanno arricchito, soprattutto musicalmente per la quantità di partiture nuove da studiare e leggere a prima vista. Uno studio continuo che mi è servito parecchio. E quanti ricordi! Per esempio, ero nel coro per l'ultima Desdemona di Katia Ricciarelli, con Norma Fantini nel primo cast, Virginia Todisco nel secondo cast, e lei che venne per una recita sola, il suo addio alla parte. Nessuna prova, solamente per la recita. Quindi, "Abbasso le spade!" ... "che? la mia dolce Desdemona..." ed è apparsa lei: bellissima, bellissima con questi capelli lunghi, i riccioli biondi. Era una meraviglia... Basta, qui fermo.

L’opera come tipo d'arte ha una sua missione umanistica adesso? E quale?

Be', spero di sì. Infatti credo sia fondamentale avvicinare molti più giovani all'opera, non solo come arte passato, ma coinvolgendoli anche in una visione contemporanea. Ben venga l'opera contemporanea! I giovani sono il nostro futuro, non dobbiamo lasciare che l'opera diventi sempre più cosa per pochi, per un'élite.

Nel Guillaume Tell a Lione aleggiava l'idea di morte dell’arte.

Sì, però stesso tempo anche una specie di rinascita. Si mostrava la distruzione dell'arte, allegoricamente fracassando strumenti musicali.

Una scena terribile.

Terribile. Ma allo stesso tempo questi strumenti musicali diventeranno la nostra arma vincente affinché quest'arte non muoia, per una rinascita. È vero si trattava alla fine di una visione molto pessimista. Un'idea precisa, una specie di denuncia un po' a tutte le autorità che non si preoccupano più di tanto della nostra forma d'arte. E questo è un po' un segnale d'allarme dei nostri giorni. E non parliamo dell'Italia: ecco, se questa produzione fosse stata fatta in Italia, avrei gradito molto di più. Perché è stato veramente un segnale forte molto forte. Io spero che questa produzione possa possa viaggiare e possa arrivare anche in Italia, anche se non so se dopo la produzione di Lione io canterò ancora Guillaume Tell.

Perche?

Non lo so. Dal 2013 a oggi, ho cantato Guillaume Tell un po' dappertutto: a Monaco di Baviera, a Montecarlo, a Bruxelles, a Champs Elysées a Parigi, a Lione. Per non parlare di Pesaro. Penso di aver dato quello che potevo con questo personaggio. Non sento di aver aggiunto qualcosa o aver tolto qualcosa. Fondamentalmente l'ho sempre cantato e interpretato allo stesso modo. Allora c'è qualcosa che non va, secondo me. E quindi basta. E' arrivato il momento di cambiare. Non è come Falstaff. In Falstaff, ogni volta, trovo sempre qualcosa da mettere o qualcosa da togliere. E' sempre un personaggio in movimento, un personaggio incredibile. E quindi mi diverto, grazie anche a grandi direttori. Anche Guillaume  Tell  l’ho cantato con grandi direttori, ma fondamentalmente sento dentro di me di averlo sempre interpretato allo stesso modo, sempre. Basta. Lo farei solo per lavoro, per guadagno, e non mi piace così. Voglio essere spronato, voglio essere arrichito sempre da un personaggio, quindi penso che Guillaume  Tell abbia fatto il suo tempo con me. Lo lascio ad altri colleghi bravissimi.

Ma tra i suoi Guillaume Tell quale è stato più amato?

Io ho amato moltissimo la produzione che abbiamo fatto a Pesaro con Graham Vick, preparandola con un bel periodo di lavoro intenso. Poi, anche nella sua classicità, ho amato molto anche quella di Jean-Louis Grinda a Montecarlo che poi abbiamo ripreso a Oranges, specie per il giuramento del secondo atto: Guillaume  Tell va a prendere i suoi compagni che sono arrivati, tutti si prendono per mano e vengono avanti verso il pubblico. È molto semplice, ma efficace. Al pubblico, piaceva moltissimo. Queste sono due produzioni che ho amato molto. Quella di Tobias Kratzer a Lione è chiaramente nuova e pure mi è piaciuta molto, un po' pessimista, un po' particolare: si è ispirato molto ad Arancia meccanica, il film di Kubrick. Quindi con i cattivi  vestiti in bianco, con la mazza e il cappello. Sicuramente efficace. Quello che mi è piaciuto di Tobias è la sua costanza, la sua idea ben precisa che non ha mai cambiato, la sua organizzazione perfetta. Abbiamo avuto trenta giorni di regia, sei ore al giorno, e lui ha fatto un piano per ogni giorno e l'ha seguito passo-passo. Io non ho mai visto un regista lavorare così, mai. Di una precisione inaudita. "Le prove iniziano alle 10. Però alle 10 mi servono questo questo e questo. Alaimo può venire alle 11:27." Arrivavo alle 11:27 e alle 11:27 lavoravo. Incredibile! È veramente incredibile. Non avevo mai visto una cosa del genere, per cui ho apprezzato moltissimo questo modo di lavorare, così come apprezzavo la puntualità. E la puntualità è secondo me una delle basi fondamentali del nostro lavoro, la puntualità. Però, se devo scegliere una produzione, è quella di Vick sicuramente. Straordinaria la produzione, straordinario lui.

E ha lavorato con lui due volte?

Due volte. Ho fatto Guillaume  Tell e poi La bohème che ha vinto il premio Abbiati.  Io volevo debuttare Marcello e ne avevo parlato con Michele Mariotti, il direttore: La bohème è una delle mie opere del cuore, perché nei primi anni '90, quando ero un ragazzino di 13-14 anni, zio Vincenzo, fratello di mio padre e di zio Simone, era artista del coro alla Scala e mi ha portato con lui a Milano. La prima opera che io ho visto alla Scala è stata La bohème con Gavazzeni che dirigeva, Mirella Freni, Roberto Alagna giovanissimo. Son rimasto rimasto folgorato da quest'opera. Io dicevo sempre fra me e me che un giorno l'avrei cantata, ma non me l'hanno mai proposta. Mia moglie scherzando mi diceva: "E certo che non te la propongono. Dovresti dimagrire almeno 70 kg perché è il ruolo di un morto di fame, non hanno da mangiare." Uno scherzo, ma anche un po' vero perché il fisico non mi ha aiutato. Poi finalmente, però, è arrivata La bohème. Ed è stata un'esperienza esaltante: La bohème secondo Vick è qualcosa di...

...assolutamente straordinario.

Il finale non riuscivamo a provarlo, cominciava a piangere lui per primo e io non avevo mai visto Vick in lacrime! C'erano dei colleghi fantastici come Mariangela Sicilia e Francesco Demuro, che oltre alle qualità vocali sono anche due veri attori in scena: così piangeva Vick, cominciava a piangere la Sicilia, cominciava a piangere Demuro e io con loro, pronto a entrare... e non si smetteva mai. Veramente è stata una produzione incredibile. Quando escono tutti gli altri, "Filosofo, ragioni...", lei e lui sono per terra perché in casa non c'è rimasto più niente, la povertà assoluta. Lei per terra. Lui accanto a lei. Lei apre un po' gli occhi ma poco poco, con la testolina sula spalla di lui: lì siamo scoppiati tutti a piangere, Vick compreso. Io penso che sia stata l'esperienza più bella della mia vita. Non so se canterò più La Bohème, ma dopo questa Bohème con Graham Vick posso ritenermi più che soddisfatto. Ed è stata meravigliosa anche la direzione di Michele Mariotti. Tutto incredibile, con un finale sconvolgente. Questo è il nostro lavoro: vive anche di emozioni che sono difficili da trattenere in scena, anche se dobbiamo farlo. Se cominciamo a piangere, è la fine, bisogna essere professionisti. Io tante volte vorrei abbandonarmi, ma non si può, non si deve. È difficile, forse anche inaccettabile da sentire, ma non dobbiamo lasciarci travolgere in palcoscenico dall'emozione, altrimenti è finita. Rischiamo di non cantare più bene, rischiamo di non essere più all'altezza e non va bene. E a me più volte è capitato anche nel Tell, a Pesaro come a Lione. In quest'ultima produzione c'era in scena un bambino vero, mentre la cantante è una sorta di fantasma nell'azione. Così, la prima volta che abbiamo provato la mia aria,  non ho trattenuto le lacrime di fronte a questo bambino legato e ho cantato male. Per fortuna era una prova di regia, ma ugualmente non va bene: dobbiamo saper mettere le nostre emozioni da parte per farle arrivare al pubblico. 

E cosa c'è nella sua vita, oltre che al canto?

La mia vita è la mia famiglia, che la mia priorità assoluta. Mia moglie, le mie due bambine, Sofia di 9 anni, Marilena di 5 anni:sono tutto quello che ho. Tutto ciò che faccio è in funzione di loro e purtroppo la lontananza è la parola principale nella mia vita, nella nostra vita. Loro un po' si sono abituate, però è duro, è molto difficile. Per cui loro sono la mia priorità. Poi mi piace molto leggere, moltissimo. Ho scoperto che mi piacciono molto le biografie dei grandi artisti del passato, quella di Charlie Chaplin, quella di Stanlio e Ollio, Oliver Hardy e Stan Laurel. E poi mi piacciono molto i LEGO: li adoro. A proposito, devo raccontare un aneddoto: prima di arrivare a Lione per le prove di Guillaume Tell in autunno ho scritto un post su Facebook (io sono molto social) dicendo che il 5 ottobre ci sarebbe stata la première dell'opera, ma anche il mio quarantunesimo compleanno e che quindi chiedevo alla direzione artistica del teatro di Lione di farmi trovare quella sera in camerino un piccolo regalo, un LEGO gigante, una Bugatti, che io adoro. Si tratta di una confezione di una certa importanza, non un gioco da ragazzi, ma io scherzavo, è chiaro! Be', il 5 ottobre, io apro il camerino e vedo lì sulla poltrona un pacco gigante di LEGO e quasi non ci credo. Non era il teatro ma era Daniele Rustioni, che dirigeva la produzione, che mi ha fatto questo regalo. Nel bigliettino m'ha scritto: "Ogni promessa è debito, adesso sono cavoli tuoi, però, perché te lo devi trasportare in viaggio e pesa un quintale." È stato molto carino. Sì, ora abbiamo la casa piena di LEGO. Mia moglie, non puo più: "Se ti caccerò di casa - dice - sarà perché siamo pieni di LEGO." Una passione: montarlo pezzettino su pezzettino, ed è fantastico davvero.

Vogliamo chiudere con un po' di impegni futuri?

Dopo Falstaff diretto da Daniel Oren a Palermo ci sarà Rossini con La Cenerentola a Bologna, ma stavolta, dopo aver debuttato come Don Magnifico ad Amsterdam, tornerò a Dandini. Poi c’è Vienna: alla Staatsoper farò un altro debutto come Mustafà nell'Italiana in Algeri. Quindi, ancora Rossini: Rossini è sempre la mia base. A Salisburgo sarò Don Pasquale con Cecilia Bartoli che debutterà nel ruolo di Norina. Sono curiosissimo, ma lei sicuramente sarà straordinaria. Dopo Salisburgo, c'è Madrid con La traviata, direttore Nicola Luisotti. Dopo di nuovo, Salisburgo, sempre Don Pasquale. E poi finalmente a Chicago con Attila di Verdi. È un bel programma! Prima, infatti, in settembre c'è di nuovo Vienna con Dulcamara, L'elisir d'amore. Una agenda abbastanza impegnativa, però sono molto contento.  Non posso lamentarmi.

Vorrei vederLa a Mosca un giorno.

Magari, il Bolshoi... è una meraviglia. Io ho cantato a Mosca, ma non al Bolshoi. Abbiamo fatto una tournée con il maestro Muti anni fa, era il 2007-2008, con Don Pasquale e io cantavo il ruolo del titolo. Fra le varie città siamo andati anche a San Pietroburgo prima e poi a Mosca. Però il Bolshoi era chiuso per restauri, credo, e quindi abbiamo cantato in un auditorium molto bello, bellissimo. È stata un'esperienza breve, ma intensa: sono stati a Mosca tre giorni, quindi non ho avuto modo anche di visitare bene la città. Ho visto la piazza che era una meraviglia e sono stati giorni bellissimi. Ci hanno ospitato in un hotel 5 stelle stupendo. È statao tutto magnifico. E spero di tornare.

Anch’io lo spero.

Bene. E stato un piacere.

Mille grazie.