Belcantiste in cornice

 di Francesco Lora

Al Teatro La Fenice, I Capuleti e i Montecchi di Bellini torna nel seminuovo allestimento firmato da Bernard. Nella prima compagnia di canto, la Pratt e la Ganassi formano un’eccellente coppia protagonista. Appassionata la direzione di Wellber.

Leggi la recensione del cast alternativo (Marcu, Gardina, Marsiglia)

VENEZIA, 18 gennaio 2015 – Secondo un uso fuorviante e ormai invalso anche in Italia, la locandina promette un nuovo allestimento. Ma l’allestimento dei Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini, con regìa di Arnaud Bernard, scene di Bernard stesso e Alessandro Camera, e costumi di Carla Ricotti, è una novità relativa: le sei recite del 14-20 gennaio al Teatro La Fenice rientrano infatti in una coproduzione che ha già segnato tappe a Oslo, Verona e Muscat. Il resoconto sulla parte visiva è dunque sintetico ritornello di quanto qualcun altro avrà già scritto: parte più visiva che teatrale, occorre ribadire, in nome della via seguìta dal regista. Siccome per sua dichiarazione la storia di Romeo e Giulietta, declinata secondo Bellini e Romani, pare a lui una galleria di situazioni e personaggi stereotipati, non degni di approfondimento peculiare, egli la colloca nel luogo fisico ove deve stare: in un museo, tra tele pittoriche che vanno e vengono nel riordino della mostra. Fatto ciò, tutto il resto si svolge secondo didascalia, affidandosi all’esperienza dei singoli interpreti e impacciandoli talora con costumi inadatti ai nuovi attori se non all’adolescente romantica e al rispettivo amoroso: nulla tende a correggere la Giulietta di Jessica Pratt, debordante di seno e assai alta di statura, avvolta in una tunica che tutto amplifica, rispetto al Romeo di Sonia Ganassi, anch’essa prosperosa ma sovrastata di un palmo, infagottata in abiti che ne accentuano le rotondità.

Per fortuna, all’imperizia costumistica corrisponde un’accoppiata di belcantiste oggi difficilmente superabile. La Pratt conferma le sue virtù canoniche: emissione ferma e rotonda, timbro omogeneo e angelicato, temperamento lirico ma non privo di qualche vigoroso scatto degno d’una primadonna. La Ganassi sorprende: ormai avvezza alla Principessa Eboli e ad Amneris più che al belcanto che la conobbe regina, nel tornare a Romeo ella esibisce una corposa tenebra timbrica e un compiacimento d’affondo propri non del mezzosoprano acuto che è, ma di un contralto vero e proprio; in più, calca in modo inedito la mano – ma senza infastidire: la mano è maestra – sulla virilità del personaggio: l’accento è non solo scolpito, ma persin reso aggressivo e protervo, salvo improvvisamente ingentilirsi nel rivolgersi a Giulietta. Un ritorno alla grande. Delude, per contro, Shalva Mukeria come Tebaldo: al timbro incolore si aggiungono qui l’inerzia espressiva e un legato così incerto da annacquare il cantabile. Rubén Amoretti risolve l’intera parte di Capellio con sbrigativa brutalità, senza cedere a indugi, mentre il terreno della sottigliezza psicologica è riguadagnato da Luca Dall’Amico come Lorenzo.

L’orchestra del Teatro La Fenice è ormai avvezza alle sollecitazioni tutte esigenti, tutte esperte e tutte diverse di direttori come Myung-Whun Chung, Stefano Montanari ed Emmanuel Villaume; la collaborazione con bacchette tanto propositive ha anzi rivalutato come mai prima le sue risorse tecniche e retoriche. In questi Capuleti, il concertatore Omer Meir Wellber si giova della puntigliosità stilistica già maturata dai professori, asseconda a oltranza l’estenuata cantabilità profusa da Bellini nell’opera, sostiene amorevolmente il canto, infervora l’accompagnamento nel duetto di Romeo e Tebaldo e di lì in poi alza in volo un finale di crescente commozione, lavorando paziente di mezzetinte e sospiri. Là dove Bernard, prima che cali la tela, circonda imperterrito e impassibile, con una colossale cornice dorata, il tableau vivant sugli amanti suicidi.

foto Crosera