L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

L'elisir si studia, non si sa

di Roberta Pedrotti

L'elisir d'amore apre la triade operistica del festival Donizetti Opera con la lettura filologica di Riccardo Frizza e le ottime prove di un cast che affianca grandi nomi internazionali (Javier Camarena, Florian Sempey e Roberto Frontali) al debutto felicissimo della ventunenne Caterina Sala. Meno interessante, benché movimentata, la produzione firmata da Frederic Wake-Walker

BERGAMO, 19 novembre 2021 - Ci sono opere che, per tradizione e qualità, hanno le spalle talmente larghe da reggere in ogni situazione. Le opere che “non si studiano, si sanno”, che in qualche modo funzionano sempre, che impigriscono interpreti e direzioni artistiche. O impensieriscono i festival, là dove forse sarebbero proprio i titoli più bisognosi di essere riletti e riscoperti. A Pesaro, il Rof ha atteso più di dieci anni prima di mettere in cartellone un Barbiere di Siviglia (e, a mio parere, ne ha impiegati quasi quaranta per arrivare a presentarne uno del tutto convincente). A Bergamo, dopo opere come Il castello di Kenilworth, Belisario, Marino Faliero, può ben essere la volta dell’Elisir d’amore, non di portare alla ribalta il raro e l’ultra raro, ma di riscoprire ciò che si pensava di conoscere.

Innanzitutto si parla di edizione critica e integrale, e non è (solo) materia per fare elucubrare i musicologi, ma teatralissima questione di equilibri e sviluppi di situazioni e personaggi, di accenti, di articolazioni di pensieri che mille e mille recite abitudinarie avevano appiattito. L’esecuzione con strumenti originali (Gli Originali è anche il nome dell'orchestra) permette a Riccardo Frizza di rendere una certa qual fisicità contadina nel suono, che può essere un po’ ruvido, ruspante, ma anche sfaccettato e sfumato, diverso da quanto siamo soliti sentire da organici moderni, con la loro nitida brillantezza. Il colore, il peso, le stesse caratteristiche tecniche degli strumenti permettono di notare dettagli dinamici, accostamenti, passaggi che talora scivolano in secondo piano o finiscono trascurati, o, ancora, irrealizzabili quando l’orchestra si è evoluta, è cambiata, ha affinato alcune caratteristiche a discapito di altre. Il cast risponde con la cura che la situazione impone. Per di più è un cast davvero “da festival”, con il lusso delle grandi occasioni e la scommessa di un nome nuovo, anzi, nuovissimo. Caterina Sala, Adina, è figlia e sorella d’arte, ma a ventun’anni sulla scena è sola a dimostrare quanto vale al fianco di mostri sacri, colleghi di lungo e onorato corso. Affronta il cimento a testa alta e vince, anzi, stravince, portandosi a casa gli applausi più caldi della serata, una vera esplosione dopo l’aria del secondo atto (non la versione consueta, ma quella alternativa molto più spericolata). La tecnica e la musicalità sono di prim’ordine, la voce estesa è ben presente in tutti i registri, oltre che sicura nella coloratura, ma soprattutto mostra sangue freddo quanto basta a mantenere sempre il controllo, emozione quanto basta a entrare in empatia con pubblico e colleghi, buona costruzione del personaggio con un fraseggio intelligente e colorito.

Fra le stelle già conclamate spicca l’atteso debutto bergamasco di Javier Camarena. Un grande tenore non è mai solo do di petto, acuti e filati e Camarena, che pure ha conquistato il mondo saettando ai vertici del pentagramma, non ha bisogno di esibire alcunché. Non c’è, per dire, la puntatura di “Dulcamara volo tosto a ricercar” per il semplice motivo che lì, in quel momento, in questa recita, sarebbe apparsa fuori luogo. Ma c’è molto, molto altro: quello che fa del suo Nemorino un grande Nemorino. C’è un indubbio cantar bene, c’è un’indubbia naturale simpatica, ma sempre nella musica, sempre nel personaggio. Vero, non scontato. Sentiamo, per esempio, il colore schiarirsi a rendere lo stupore attonito, l’incredula sospensione di “Una furtiva lagrima”, tutta giocata in sottrazione. Perché, per contro, questo è un Nemorino che sa il fatto suo, più complesso del solito, candido, ingenuo, ma anche sicuro della bontà della sua visione del mondo. Un Nemorino che rimarca gli accenti, dà corpo alla voce, guarda negli occhi Adina per difendere i sentimenti in cui crede, anche se poi la timidezza lo vince.

Aveva cantato a Bergamo nell’ultima edizione pre-covid, quando il Teatro Donizetti era quasi pronto e la disposizione del pubblico nei palchi e dello spettacolo in platea sembrava un’eccezione unica in attesa della fine dei lavori. Dopo il re nell’Ange de Nisida, Florian Sempey è Belcore, sempre con voce timbrata, facile, accattivante come la presenza scenica, mobile e spiritosa.

Aveva cantato a Bergamo l’ultima volta in zona rossa, invece, Roberto Frontali, Belisario in lockdown per un pubblico virtuale. Ora si prende la sua rivincita attraversando di nuovo quella platea un anno fa vuota e ora affollatissima nei variopinti panni di Dulcamara. Un Dulcamara asciutto, che incute comprensibile rispetto nei paesani, anche se è chiaro che la studiata dignità che impressiona i semplici è in realtà arido cinismo. La voce fa teatro e costruisce il personaggio al di là dello stereotipo, del consunto quartetto civetta/tontolone/dongiovanni da strapazzo/simpatico cialtrone di tanti, troppi Elisir.

Peccato che la regia di Frederic Wake-Walker (scene di Federica Parolini, costumi Daniela Cernigliaro, luci di Fiammetta Baldiserri, burattini di Daniele Cortesi) non sia altrettanto fine. Siamo a Bergamo, città di Donizetti, città simbolo della pandemia, questa è la prima volta che il teatro restaurato apre i battenti per l’opera con il pubblico in sala a piena capienza. Facile puntare sulla festa e sull’identità locale. La scena riproduce il viale e il quadriportico di fronte al teatro, con la facciata del Donizetti a dominare il tutto, il coro dei bergamaschi (il complesso del festival preparato da Fabio Tartari) e la stessa, sonora Giannetta di Anaïs Mejías appaiono in abiti spenti e quotidiani per essere poi contagiati dagli sgargianti protagonisti. Noi siamo invitati dal maestro di cerimonie Manuel Ferreira a unirci a coro per “Cantiamo facciano brindisi” (il risultato non è male, sia detto a onore del pubblico del festival) e agitare bandierine. Bene, ma poi non c’è molto altro. Ci sono tante mosse e mossettine, qualcosa di già visto, qualcosa di nuovo nella forma più che nella sostanza. Insomma, tanti accessori sull’assunto di cui sopra: L’elisir ha spalle larghe e regge sempre. Però potrebbe anche dare ben altre soddisfazioni registiche.

Il successo, alla fine, è caloroso per tutti con punte di vero entusiasmo ben riposto. Riscoprire L’elisir è possibile, la vittoria della musica questa sera ce lo conferma e ci stimola a non adagiarci mai sul già fatto, sul già sentito. Ce lo dice anche la vittoria di uno spettacolo, viceversa, più furbo che veramente interessante, sicuro dell’ineludibile attrattiva del capolavoro. E della festa che, inevitabilmente, ci elettrizza, arrivati alla fine in questa platea tanto attesa, dopo la chiusura per restauri, dopo L’ange de Nisida nel cantiere, dopo le spettrali recite a porte chiuse. Non chiediamo che di tornarci presto e spesso. E sia lodata la coscienza del personale di sala che bacchetta a dovere i maleducati a viso scoperto.


 

 

 
 
 

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