L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Gounod alla Fenice, la lettura-sorella

di Francesco Lora

A Venezia, il già ottimo Faust musicale del 2021 incontra quello teatrale previsto nel 2020 e ora recuperato. Acuto lo spettacolo con regìa di Rechi, e ancora cresciuto – se possibile – il direttore Chaslin insieme con i cantanti: Esposito, Remigio, Ayón Rivas, Gardina e Noguera.

VENEZIA, 30 aprile 2022 – Nella primavera 2020 doveva esserci un nuovo allestimento di Faust di Gounod al Teatro La Fenice: regìa di Joan Anton Rechi, scene di Sebastian Ellrich, costumi di Gabriela Salaverri e luci di Alberto Rodríguez Vega; saltò, per emergenza sanitaria. Nell’estate 2021, tra il tira e molla delle precauzioni, ecco un nuovo Faust: ma nuovo per davvero, cioè con regìa, scene e costumi di Rechi stesso e luci di Fabio Barettin, dilatato – leggi: distanziato – tra palcoscenico e platea, insomma basato su un’idea teatrale differente da quella prevista in origine. Fu una meraviglia, e non solo poiché in quei giorni non pareva vero di tornare in teatro per un’opera [leggi la recensione: Venezia, Faust, 03/07/2021]. Quale dovesse essere l’idea del 2020 lo si è finalmente saputo col suo recupero nelle cinque recite veneziane degli scorsi 22-30 aprile: uno spettacolo del tutto autonomo, a dimostrazione che un esperto uomo di teatro e un’istituzione illustre fanno prima a inventare un altro progetto che a rabberciarlo.

Ora il Faust di Rechi gioca più esplicitamente di teatro nel teatro e colloca a dirigerlo, com’è intuibile, Méphistophélès; imposta tutt’altre controscene, con minore rischio di dispersione; continua a praticare – ahinoi – l’obsoleto taglio di tradizione dell’intero primo quadro dell’atto IV (si perdono due arie notevoli e un bel pezzo della storia); rifinisce la drammaturgia, però, con intuizioni sulle quali ci si ritrova a meditare per giorni. Una per tutte: onde indurre Faust a siglare d’impulso il diabolico patto, Méphistophélès gli procura una visione di Marguerite; in Rechi, Venezia, 2022, la visione è tuttavia non quella della Marguerite autentica, ragazza semplice e schiva, bensì quella di una Marguerite seduttrice, ammantata di lustrini, fascinosa come Elena di Troia; una Marguerite falsa. Ma cosa contiene, poi, la cassetta di bijoux che Méphistophélès dà a Faust affinché ne faccia dono a Marguerite? Quello stesso manto di lustrini, una maschera di contro-identità: il costume dell’inganno, teso sia a Faust sia Marguerite.

Quanto al discorso musicale, dal direttore ai cantanti, esso è un replica esatta di quello già recensito e lodato l’anno scorso: guai a dare colpi di spugna su ciò che funziona alla grande. Due avvertimenti, nondimeno. Il primo: ciascun interprete è – se possibile – ancora cresciuto rispetto alla prova precedente; Alex Esposito, attore gigantesco a costo di graffiare il canto, e Carmela Remigio, cantante e attrice esemplare in pari misura, si attestano allo zenit dello zenit come Méphistophélès e Marguerite; Iván Ayón Rivas, protagonista, ieri era un poco goffo nella sola presenza scenica e oggi è degno non di uno ma di tre premi Abbiati; ottimi, ancora, rimangono Paola Gardina e Armando Noguera, quali Valentin e Siébel. Il secondo avvertimento è che tutti costoro, insieme col concertatore Frédéric Chaslin e con l’orchestra e il coro della Fenice, aderiscono ora, nelle nuances, alla differente idea teatrale della quale s’è detto: e che rimarrà un’indimenticabile lettura-sorella, per comprendere due volte Faust di Gounod.


 

 

 
 
 

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