La feroce storia
di Roberta Pedrotti
Simon Boccanegra inaugura la stagione del Regio di Torino con la direzione analitica di Gianandrea Noseda. Nel cast s'impone il Fiesco di Michele Pertusi, l'unico, tra l'altro, ad affrontare la scrittura verdiana con nobile cognizione stilistica e cura della parola sostenute da tecnica adeguata. Datato e a tratti ridicolo l'allestimento di Sylvano Bussotti, ripreso in omaggio all'artista profondamente legato a Torino e al suo teatro.
TORINO, 20 ottobre 2013 - La stagione 2012/2013 del Regio di Torino si era aperta con Wagner e una bellissima produzione del Fliegende Holländer; per doveroso equilibrio di bicentenario è ora Verdi con Simon Boccanegra a inaugurare il cartellone 2013/2014. La scelta è tanto più interessante perché pone idealmente allo specchio, nella concertazione dello stesso direttore, un'opera giovanile, ancora influenzata dalle forme tradizionali, del tedesco, con un'opera della piena maturità dell'italiano (almeno nella versione del 1881 che ascoltiamo oggi), svincolata da ogni convenzione e tutta concentrata sull'analisi dell'animo umano nel conflitto fra dimensione privata e dimensione pubblica e politica. Purtroppo dal punto di vista teatrale la contrapposizione non riesce a stimolare la riflessione, perché se un anno fa Wagner aveva goduto della bella messa in scena di Willy Decker, Verdi non è altrettanto fortunato, con la ripresa a cura di Vittorio Borrelli dello spettacolo firmato da Sylvano Bussotti nel 1979. Già dieci anni orsono il Regio lo sostituì con una nuova produzione di Graham Vick che avremmo rivisto assai volentieri e ricordiamo con nostalgia: ci auguriamo che alla base di questa scelta ci fossero oggettivi problemi tecnici che abbiano reso impossibile la riproposta di Vick, che a Torino ha firmato memorabili allestimenti (indimenticabile La clemenza di Tito) e che attendiamo con ansia per il Guillaume Tell. Dal punto di vista artistico, infatti, lo spettacolo di Bussotti ha come unico, relativo, motivo d'interesse la rivisitazione curiosa di un teatro inesorabilmente invecchiato e l'omaggio a un artista eclettico molto legato al teatro sabaudo.
I fondali sono rielaborazioni ormai datate di scorci genovesi, i costumi una parata di drappeggi e calzamaglie in colori pastello e Amelia si presenta come la Madonna Nera di Loreto prima, impacciata poi in un abito da sposa di bianche meringhe. Le pose scenografiche di paggi, sbandieratori e menestrelli si muovono sempre sul filo del ridicolo, come non funziona la morte del Doge sul lungomare, in mezzo alla folla, che rende assurdo l'annuncio di Fiesco e il suo breve dialogo con il popolo fuori scena. L'interesse si sposta per forza di cose esclusivamente sul versante musicale, retto dal podio da Gianandrea Noseda, che ha privilegiato nettamente la tensione politica, il cammino della storia che domina i destini umani e soffoca ogni anelito di soddisfazione privata. Con il consueto passo asciutto e analitico, profondamente studiato in ogni dettaglio, il direttore musicale guida l'orchestra in un'ottima prova, e per la pulizia del suono e per la cura minuziosa di accenti e dinamiche (ma nel canto rispunta l'inveterato "tetto ùmile" anziché "umìle", alterazione metrica che scompiglia le strofe di ottonari seguite da Piave e Verdi). Ne è un esempio la Scena del Gran Consiglio, con i contrasti sottili, ben delineati pur senza pregiudicare l'equilibrio complessivo. Belle, per contro, anche certe atmosfere nette e rarefatte – soprattutto nei preludi – che indovinano il colore della foschia marina senza offuscare i contorni, mentre gli abbandoni, le passioni private (siano esse teneri affetti filiali, amori ardenti, o le stesse furiose macchinazioni di Paolo) non trovano troppo spazio né scampo nel mondo freddo, implacabile dipinto razionalmente da Noseda, che sembra suggerire una sorta di dilatata sospensione giusto nel momento della proclamazione del Corsaro all'alto scranno, frutto di macchinazioni che sconvolgono per sempre un uomo distrutto negli affetti e senz'alcuna ambizione di potere. Non ci si commuove tanto per i singoli, piuttosto li si compiange osservandoli travolti nel grande meccanismo della Storia e della lotta fra le classi.
Fra questi singoli emerge solo la personalità di Michele Pertusi, che s'impone per la profondissima compenetrazione della scrittura verdiana, vissuta fin nelle più intime pieghe di un canto d'ineffabile nobiltà. Il senso della parola, il modo di porgere e vivere la frase musicale, di articolarne lo sviluppo, la perizia tecnica con cui affronta tutta la tessitura, anche nei passi più drammatici, senza mai forzare, ne fanno un interprete magnetico, soggiogante. Notevolissimo nel Prologo, nel finale fraseggia pure magnificamente, ma non ritrova con Ambrogio Maestri il partner ideale per realizzare con il giusto equilibrio il pianto di riconciliazione dei due antichi nemici. Al contrario di Pertusi, infatti, Maestri sarebbe dotato di uno strumento naturalmente imponente, pieno e pastoso, versato più al tardo romanticismo e al naturalismo che non al belcanto, ma non sostenuto a sufficienza nella tecnica e portato, dunque, a sfibrarsi e sgranarsi ogniqualvolta tenti di cantar piano o di ricercare delle sfumature. Un problema capitale per un personaggio come Simon Boccanegra, che infatti inciampa sovente, faticando assai a piegarsi alle esigenze musicali ed espressive della parte: il fraseggio così resta per forza di cose in superficie e l'intonazione stessa ne risente. Avrebbe una voce molto interessante anche Maria José Siri, che infatti nella scorsa stagione torinese ci convinse assai nell'Andrea Chénier; ma Verdi è altra cosa, e l'articolazione della parola, del canto stesso in questo repertorio non le risulta congeniale, tanto che la sua Amelia pare più che altro esibire una vocalità non esente da qualche asprezza senza badar troppo a quel che dice e alle indicazioni più minute, ma non meno fondamentali, dell'Autore. Le cose non cambiano troppo con Roberto De Biasio, che ha dizione chiara e buona proiezione, ma non dosa sempre bene le proprie forze e talvolta tenta di dar fuoco a polveri un tantino bagnate in frasi chiave come “Pel cielo! Uom possente tu se'!” Devid Cecconi è un Paolo Albiani piuttosto spento e anonimo, che non scandisce come converrebbe l'inquietante barcarola “L'atra magion vedete?.. De' Fieschi è l'empio ostello” o il diabolico meccanismo ritmico del duettino del primo atto con Pietro. Questi è Fabrizio Beggi, maltrattato da una regia che ne fa una figura troppo caricaturale. Il capitano dei balestrieri è Dario Prola, mentre l'Ancella di Amelia, in sostituzione di una collega indisposta, Eugenia Braynova. Sempre eccellente il coro preparato da Claudio Fenoglio, una dei tanti esempi della qualità garantita sempre dai complessi e dalle strutture del Regio. Successo caloroso al termine per tutti gli interpreti per quello che è in realtà un piccolo festival verdiano in apertura di stagione: sono, infatti, in scena quasi contemporaneamente anche le riprese di Rigoletto e della Traviata.