L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

“Pira” abbassata e niente rogo

di Francesco Lora

Il trovatore di Verdi al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino patisce una lettura teatrale in odore di casualità e una lettura musicale con i tagli di tradizione. Soprattutto questi ultimi connotano negativamente l’altrimenti prodigioso braccio direttoriale di Zubin Mehta, mentre di valore è la compagnia di canto con Fabio Sartori, María José Siri, Ekaterina Semenchuk, Amartuvshin Enkhbat e Riccardo Fassi.

FIRENZE, 2 ottobre 2022 – Non è richiesto farlo vedere crepitante in scena, ma nel Trovatore di Verdi il rogo è onnipresente: nel racconto di Ferrando, nelle visioni di Azucena, nelle minacce del Conte di Luna e nella cabaletta di Manrico; metaforicamente, anche nel «foco orribile» del veleno che brucia le viscere di Leonora; arcaicamente, nelle fiamme cui è stata condannata la madre, da vendicare, di Azucena. Basta leggere il libretto: in una messinscena questo fil rouge può essere assecondato più o meno alla lettera, ma non finire ignorato per disinteresse né tantomeno sfuggire per disattenzione. Eppure, eppure. Nel nuovo allestimento dell’opera al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, per quattro recite dal 29 settembre al 7 ottobre, dentro l’Auditorium intitolato, in vita, al regnante Zubin Mehta, s’è dato un Trovatore nella cui regìa, di Cesare Lievi, omaccioni vestiti da madre di Azucena ricorrono a rievocare la condanna a morte o a reclamare la vendetta dalla zingara: ed ecco che in una controscena si vede l’antica donna soccombere tra colpi di lancia anziché tra le fiamme delle quali tutti, intorno, parlano. È grave? Sì: poiché il lavoro con attori e masse non mostra cura, la drammaturgia perde la tradizione senza essere innovata, le scene e i costumi di Luigi Perego vagano dal Quattrocento oleografico alla poltrona girevole da ufficio, ma non lasciano cogliere in ciò una ragione di sintesi. V’è odore di sbandante casualità registica, come nell’ultimo Ballo in maschera alla Scala di Milano o nell’ultima Forza del destino al Regio di Parma: letture teatrali che al melomane, sia egli reazionario o progressista, sanno di dilettantesco, di tirato via, di nocivo alle parallele letture musicali inceppate con tale zavorra.

Spiace, ciò, anche poiché la fondazione lirica fiorentina ha organizzato il nuovo cartellone non a mano libera, ma in rassegne tematiche tra le quali quella autunnale è appunto dedicata a Verdi, con la lusinga di un festival monografico e proprio mentre ne ha luogo un altro a Parma. Si dovrebbe allora contribuire alla conoscenza scientifica del compositore, della sua opera e della sua poetica, mentre nel Trovatore in oggetto si ha non solo una regìa malferma, ma anche il deliberato orrore dei tagli di tradizione, quelli che, per risparmiare cinque minuti d’ascolto in un’intera opera e già concisa, ne sfrondano le rapinose code e ne dimezzano le svelte cabalette, minando la logica strutturale di una partitura ragionatissima: manco a dirlo, la “Pira” risulta abbassata di mezzo tono, così da ipotecare la giusta fonica di un brano all’effetto di una nota conclusiva tacitamente venduta per ciò che non è nei fatti.

Quale profitto ha da trarre, in siffatto dissesto testuale, un prodigioso braccio direttoriale come quello di Mehta, al cospetto di un’orchestra sinfonica e un coro operistico di prim’ordine? Perché un concertatore di tale vaglia sceglie di assecondare la mala prassi della provincia di cent’anni fa, anziché lavorare di fino su una composizione a lui ben nota, cara e congeniale? Il suo dilatatissimo stacco di tempi dà, peraltro, conto del valore della compagnia di canto, in grado di sostenerne le ardue campate. Fabio Sartori, come Manrico, psicologicamente graziato del Do sopracuto mai scritto da Verdi lungo tutta la parte, ha timbro, fibra, piglio e una certa genuina comunicativa d’altri tempi, anche là ove il suo orizzonte retorico rischierebbe l’inerzia espressiva. María José Siri, come Leonora, ha smalto, risonanza e colori da vendere, per quanto – si pensi ai passaggi d’agilità, sempre più macchinosi – il suo repertorio d’elezione sia ormai nel Verdi più tardo, nel Verismo e in Puccini. Ekaterina Semenchuk, come Azucena, non tarda ad accorgersi di tenere il vero ruolo protagonistico: tra la generosità del registro di petto, un ostentato temperamento alla bielorussa e l’insolenza del registro acutissimo – ma ciò non vuol dire modi sopraffini – sa come innescare per sé applausi scatenati. Amartuvshin Enkhbat, come Conte di Luna, è tuttora compassato nel porgere ma vanta ormai dizione da madrelingua, oltre la solita impressionante dote, naturale e tecnica, in fatto di volume, sontuosa facilità e legato. Riccardo Fassi, come Ferrando, ha infine la gravità attoriale del militare consumato, ma il canto è fresco, agiato, vivido, degno insomma del più conscio consumo sul mercato delle voci italiane.


 

 

 
 
 

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