Cartoline da Babilonia

 di Andrea R. G. Pedrotti

 

Un clima piuttosto rigido accoglie l'inaugurazione del Festival dell'Arena di Verona con Nabucco. Decisamente statico e datato l'allestimento di De Bosio, illuminato da buone prove musicali, fra cui spicca quella di Luca Salsi nei panni del re assiro.

Breve selezione video

la recensione del cast alternativo con Dalibor Jenis e Susanna Branchini

la recensioen del cast alternativo con Sebastian Catana e Anna Pirozzi

VERONA, 19 giugno 2015 - L'occhio speranzoso è rivolto verso il cielo nell'auspicio che la stagione estiva 2015 della Fondazione Arena possa aver inizio. La speranza, tuttavia, si è successivamente mutata in sconforto, quando dalla volta celeste sono scese copiose lacrime. Eppure, se esiste un luogo dove sia possibile ritrovare la pace, questo è la cavea dell'Arena di Verona, perciò l'unica soluzione che consentisse al firmamento si mostrarsi nuovamente trionfante era far in modo che questo Nabucco potesse andare in scena. L'opera verdiana non rappresenta solo una vicenda biblica, rendendola immortale quasi oltre la capacità dei testi sacri, ma la fa vivere ai nostri occhi. Tutto nella storia di Nabucodonosor è figurato nel segno del nome: il coro degli Ebrei altro non è che un unico personaggio, un nome, quello di Israele, ossia Giacobbe. Una moltitudine sintetizzata in una singolarità, o la singolarità di Israello moltiplicata nella moltitudine. Altra ricerca del nome è quella di Nabucco stesso, il quale si pone al di sopra di Dio, ricevendo la punizione della perdita di senno; follia che si protrarrà sino al riconoscimento del “nome”, della soluzione, di Hashem: il nome Dio, che in ebraico significa, giustappunto, semplicemente “nome”.

Andando oltre le analisi di approfondimento teologico e linguistico notiamo, con soddisfazione, il numerosissimo pubblico presente. Malauguratamente non si è potuto ripetere il mistico rito delle candeline accese in galleria, a causa del vento tagliente e della temperatura notevolmente rigida.

La regia di Gianfranco de Bosio presenta le solite pecche che conoscevamo: un eccesso di maniera nel movimento e di immagini da cartolina d'epoca. Per quanto noi possiamo amare le figure seppiate, l'idea di trovarci su un set cinematografico dei primissimi anni venti non era affatto esaltante. A questo potremmo aggiungere che più di pellicola pareva trattarsi di una lanterna magica, con una serie di quadri quasi completamente fissi e perennemente statici. Alcuni tratti apparivano fin caricaturali, se non caricati, come l'ingresso in scena di Abigaille, con tanto di daga sguainata, brandita verso il cielo, o la condanna di Fenena, con l'ingresso di un boia che sarebbe stato rigettato dal più convinto d'annunziano a un provino di Cabiria.

Tralasciando ciò, alcuni, pochi, movimenti delle masse appaiono appropriati, in special modo la scena della conversione di Nabucco e l'agognata liberazione del popolo di Israele, con le mani degli ebrei rivolte unitamente al cielo e l'inchino delle insanguinate picche assire.

Poco o null'altro avremmo da aggiungere sulla messa in scena, se non citare qualche effetto poco rilevante, come alcune fiammate nei momenti di intervento divino. I costumi oscillavano fra il monocromatico grigio del coro degli Ebrei e le tinte sgargianti dei Babilonesi.

Le scene di Rinaldo Olivieri sono semplici e - certo - non brutte, ma soffrono degli stessi vizi dell'intero allestimento. Onore, comunque, a Gianfranco de Bosio, che a novant'anni e ben oltre la mezzanotte, è salito, ancora una volta, sul palco areniano a raccogliere gli applausi del pubblico.

Decisamente di qualità superiore l'aspetto musicale, con ottime risposte da parte di alcuni interpreti. Migliore elemento della compagnia è stato Luca Salsi, come Nabucco. Al suo ingresso sul palco gli si potrebbe imputare un eccesso di impeto, quando sarebbe richiesta un'emissione più morbida, ma il crescendo è continuo; sicuramente si dimostra il miglior fraseggiatore della serata. Il ruolo è domato con sicurezza in una bellissima scena di delirio “Chi mi toglie il regio scettro?...”, ma è l'aria “Dio di Giuda” a regalare ai presenti autentiche emozioni e l'unica cabaletta veramente coinvolgente nell'interpretazione che Salsi offre di “Cadran, cadranno i perfidi”.

Martina Serafin (Abigaille) è la cantante che meno ci ha convinti. In molte occasioni la voce giunge a noi poco limpida e proiettata, soprattutto rispetto a quella di altri interpreti. L'aria “Anch'io dischiuso un giorno” è ben eseguita, mentre la cabaletta “Salgo già del trono aurato”, caratterizzata da qualche taglio di troppo, non è sicuramente esaltante. Nel cast vocale la Serafin è forse colei che maggiormente soffre la regia, eccedendo più di altri in atteggiamenti marcatamente manierati.

Molto bene anche lo Zaccaria di Dmitry Beloselsky, che parte in sordina - a causa dell'umidità -, ma si riprende nel corso della rappresentazione, con begli accenti e notevole presenza scenica.

Piero Pretti è un buon Ismaele: il giovane ebreo è ben reso interpretativamente e la voce del tenore sardo è, senz'altro, fra le migliori in circolazione. Forse ha patito il clima (il vento soprattutto) e il peso del debutto in Arena, errando alcune posizioni che ne inficiavano la perfetta diffusione del suono. Infatti, quando il cantante ci dava le spalle, si avvertiva una eco diffusa, mentre la voce era pienamente limpida, quando la posizione diveniva frontale, giungendo a noi bella e squillante. Forse non sarà il suo repertorio d'elezione, ma il risultato è stato di livello. Non si può dire molto sul piano dello scavo psicologico, considerata la scarsa personalità del personaggio di Ismaele. Il giovane Ebreo si arrabbia, fa danni e quando compie un'azione è sempre quella sbagliata: difficile trarre molto di più da un ruolo di tal fatta.

Raffinata ed elegante la Fenena di Nino Surguladze, forse colei che meglio ha posto la voce, con un'emissione mai forzata e una proiezione che consentiva al suono di giungere al pubblico con apparente semplicità.

Completavano il cast Alessandro Guerzoni (Gran Sacerdote di Belo), Francesco Pittari (Abdallo), e Madina Karbeli (Anna).

Riccardo Frizza è certamente migliorato, rispetto a come lo avevamo sentito negli anni scorsi. Sinfonia e introduzione soffrono pesantemente del clima, con l'insieme degli ottoni a emettere un suono non certo bellissimo, e del forte vento che ha portato a qualche sfasamento iniziale.

Nel prosieguo della recita l'equilibrio fra le sezioni orchestrali, palco e buca è migliorato di molto. Al maestro bresciano riconosciamo una buona capacità nel seguire il cantabile e le parti più sfumate della partitura, ma sarebbe necessario un fraseggio musicale più veemente nelle cabalette e in alcuni interventi del coro.

Restiamo sul coro, che si conferma uno dei migliori complessi italiani: inizialmente l'amalgama è perfettibile, ma qualità della massa artistica è indiscutibile. Non abbiamo mai amato particolarmente “Va', pensiero”, ma la lettura musicale e interpretativa del direttore e delle masse artistiche è stata coinvolgente come non mai. Un autentico unisono di sfumature e interpretazione dall'effetto memorabile, sia nella prima interpretazione, sia nello scontato bis.

Un plauso va a Salvo Sgrò, pronto a raccogliere la pesantissima eredità del maestro Armando Tasso.

Impeccabili, come sempre, i tecnici e le comparse areniane.

Peccato che a causa di un clima rassomigliante più a quello di novembre, che non a quello di fine giugno, molti astanti abbiano deciso di lasciare il proprio posto, sicuramente non per demeriti artistici, ma per evitare l'assideramento.

foto ENNEVI