Una Turandot senza grandeur

 di Stefano Ceccarelli

Seconda opera di Giacomo Puccini in cartellone al festival estivo delle Terme di Caracalla, Turandot va in scena fra luglio e agosto (per un totale di sette recite), alternandosi con la Madama Butterfly e Bohème. La direzione di Juraj Valčuha – due recita vedranno, però, sul podio Carlo Donadio – è complessivamente corretta, a tratti anche trascinante, benché manchi di un tocco di malinconica elegia, di una più delicata profumazione orientale. La regia di Denis Krief, statica e adagiata su una scenografia monocorde, non rende giustizia all’opera, soprattutto perché mortifica un elemento fondamentale della drammaturgia di Turandot: la grandeur.

ROMA, 24 luglio 2015 – Torna in scena, alle Terme di Caracalla, l’ultimo capolavoro di Giacomo Puccini: l’incompiuta Turandot. Mancava dal festival estivo dal 2007; dal Teatro dell’Opera di Roma, invece, solo dal 2013 – occasione in cui ammirammo un allestimento abbastanza ricco, provvisto di un cast ragguardevole (v’era, addirittura, la presenza di Merritt nei panni di Altoum). Secondo titolo in cartellone, Turandot intreccia e alterna le sue recite con le ultime di Madama Butterfly e quelle della ripresa di Bohème.

Una Turandot, per quanto concerne la mise en scène,fortemente antitradizionale: una scenografia minimalista e monocorde, lontana dagli effetti di grandeur cui le produzioni storiche del titolo ci hanno largamente abituato. Regia, scene, costumi e luci sono firmate da un'unica persona: Denis Krief. Romano d’adozione, Krief ha aperto l’attuale stagione dell’Opera di Roma con la Rusalka – si ricorderà tutto l’affaire dell’abbandono di Muti, che avrebbe dovuto iniziare la stagione romana con Aida, causa i troppi ammutinamenti del suo equipaggio. Sui problemi registici di quella Rusalka, ho già scritto in passato, esprimendo forti perplessità sull’operato di Krief. La mia opinione sulla sua Weltanschauung registica mi è ora più chiara: ma non certo in senso positivo. Dicevo: una scenografia minimalista e monocorde. Per carità: Turandot non deve significare, necessariamente, “zeffirellianesimo” a oltranza. Ma neanche scarno geometrismo (o costruttivismo metafisico, come preferisce definirlo la Fiorillo nelle note registiche del programma di sala), che, sebbene abbia il pregio di una ricerca persino numerologica – ripetizione del modulo 8 –, appare comunque disorientante, quando il compito di una regia sarebbe quello di regalare un correlativo oggettivo della partitura. Ebbene, tutto l’effluvio favolistico e orientaleggiante, ogni esotico profumo della partitura pucciniana è rappresentato da un alto muro di vimini di bambù con pannelli mobili in verticale; di tanto in tanto, altri scarni arredi scenici, come una sorta di carro-casetta lignea – così definito nelle note: casa di Liù, Calaf e Timur? Ma non erano in esilio? Davanti a questo muro ligneo, evocante un’improbabile Pechino favolistica, sfilano personaggi dalle varie e diacroniche fogge: una sorta di pot-pourri di elementi provenienti da epoche diverse. Così, ai costumi monocromi orientali di Liù, Timur, Calaf e del coro, vediamo affiancarsi guardie imperiali che sembrano piuttosto usciti dritti dritti dalla dittatura di Mao-Tze-Tung; o l’enigmatico Mandarino in frak, con tanto di cappello e cerone sul viso, onnipresenza dai tratti inquietanti; o le sensuali geishe che sembrano delle avvenenti massaggiatrici. Unici costumi che si notano sono quello di Turandot, con classiche fantasie cinesi (draghi) celesti su sfondo rosso, e quello giallo, più composto e regale, di Altoum. La regia vorrebbe colpire con curiosità da teatro povero privo di effetti – insomma: dei coup de théâtre che, se almeno fossero realmente fondanti sulla drammaturgia dell’opera, sarebbero efficaci, con un notevole risparmio economico. Ma tale apparato di effetti non tiene a bocca aperta, anzi disorienta lo spettatore, privandolo del diritto di godere del suo momento d’esotica evasione. L’atto che ne fa più le spese è il primo. Un’atmosfera tra lo stupore e il terrore dovrebbe accogliere gli spettatori: le teste mozze e l’annuncio della morte del bellissimo principe di Persia dovrebbero ingenerare una climax drammatica che passa per la caduta di Timur, il ricongiungimento fra Calaf e il padre, i servi che arrotano la scimitarra, l’arrivo della fatal quiete della sera, la preghiera alla dea Luna, la mesta sfilata del bel principe, l’implacabile cenno di Turandot, l’amore e il senso di rivalsa eroico-nobiliare che invadono Calaf. Nulla di tutto ciò è percepibile: Timur si rialza da solo, Turandot non appare da nessuna parte ecc. Dunque: la delicata magia drammatica esperita da Puccini e librettisti, infranta. Non cambiano molto gli altri due atti, con il coro ben piantato dietro il muro (con conseguente spoglio della scena: altro elemento, coraggiosamente, atipico). Qualche momento particolare, in ogni caso, c’è: la scena dell’esecuzione del principe, che sfila con grande nobiltà sulla scena, guardando intensamente Calaf, suo Doppelgänger; il corale notturno, col Mandarino – figura drammaticamente ambigua – che entra in scena giocando con un grosso pallone a elio (la luna); la creazione della finta folla di spaventapasseri con bianche teste, abbigliati all’orientale, da parte di Ping, Pang e Pong (II atto). A parte, quindi, qualche elemento non dico necessariamente buono, ma almeno singolare (o originale: visto che i registi di oggi sacrificherebbero qualunque coerenza al nume dell’originalità), più che a Pechino ci troviamo nel deserto dei Tartari. Il tessuto registico sembra, dunque, troppo inficiato da illogicità e controsensi. Per fortuna Krief è abile a giocar d’effetti di luci: possiamo godere di qualche bella atmosfera e proiezione d’ombra.

La parte musicale e il cast vocale sono certamente più apprezzabili. Juraj Valčuha offre una lettura energica e trascinante (nei momenti in cui gli è possibile), ma anche sintetica, a tratti troppo, a tirar via: della partitura sente molto l’ostentata, pomposa magniloquenza di molti momenti, meno il ricamo raffinato di altri. Infatti sono ottime le sezioni corali, che riesce a gestire perfettamente – peraltro il coro è immobile e quasi sempre piantato innanzi a lui: si pensi al finale II «Ai tuoi piedi ci prostriam». Nell’atto III, però, indossa anche dei guanti di velluto, esaltando venature e screziature armoniche: atto che si conclude con la morte di Liù. Krief e Valčuha prescelgono il taglio dei finali moderni post-pucciniani (Alfano e Berio), terminando l’opera con l’ultima scena compiutamente orchestrata da Puccini. («Caro Adamino, è proprio detto ch’io non debba lavorare? Non debba finire Turandot?» scriveva il moribondo compositore). Scelta discutibile, su cui posso essere d’accordo, anche su un piano meramente filologico, visto e considerato che sono solo sparsi abbozzi il resto del materiale pucciniano, quasi che lo stesso Puccini non riuscisse a trovare la degna conclusione. E il fascino dell’opera promana anche dalla sua drammaturgia mozza. L’orchestra è buona, ma soffre dei problemi acustici endemici a Caracalla – una migliore amplificazione sarà una sfida che il Teatro dell’Opera di Roma dovrà affrontare al più presto possibile. Turandot è cantata dalla svedese Iréne Theorin, che ha portato il personaggio in scena in tutto il mondo. È la classica Turandot tutta voce: potente, sì, ma timbricamente monocorde. Il suono, specialmente nel registro basso, pur essendo distinto, risulta spesso eccessivamente chiuso, schiacciato. Nell’aria «In questa Reggia, or son mill’anni e mille» non modula i fraseggi (si pensi alle possibilità espressive della sezione del ricordo dello stupro di Lou-Ling) come si potrebbe, e risulta eccessivamente statuaria, più che algida; meglio la scena degli indovinelli, dove trova accenti più sibillini, enigmatici, a tratti surreali. Un Altoum vocalmente anche troppo dirompente è Max Renè Cosotti, purtroppo afflitto da un percettibile difetto di pronuncia della sibilante: il suo è un Altoum molto umano e poco divino. Uno statuario Timur disegna Marco Spotti, grazie a una voce profonda e cavernosa, perfettamente udibile e squillante: scolpisce fraseggi smaglianti e brillanti – forse troppo, visto e considerato che interpreta un malconcio vecchio. Jorge De León è un classico Calaf dalla voce potente e tornita: si tratta di un tenore a cui piace eminentemente tirar fuori la voce, con qualche problema – forse limitatamente alla serata in questione – negli acuti, che stentano a svettare limpidissimi (eccetto il passaggio si naturale-la sovracuti del finale di «Nessun dorma!»). Il registro centrale è lirico e, benché un po’ farinoso e lievemente nasale (con qualche conseguente difficoltà d’emissione pulita), lo si sente cantar bene in «Non piangere, Liù!», anche se il fraseggio potrebbe essere più curato. L’acme della performance la raggiunge nel «Nessun dorma!», in cui dà tutto sé stesso, guadagnandosi un applauso sincero del pubblico. Vera protagonista della serata – anche perché col finale “a-caudato” (ove rimangono irrisolti i fili drammaturgici) è il suo il personaggio cardine della fiaba – la Liù di Maria Katzarava: la messicana è dotata di un’eccellente tecnica, di un ragguardevole gusto e di un’adeguata potenza vocale. I suoi acuti volano smaglianti, pieni, vibrati; soprattutto trova passaggi in legato fenomenali: si pensi all’arioso «Tanto amore, segreto, inconfessato». Sebbene il fraseggiare sia a tratti ingenuo – né il timbro provenga dall’empireo –, «Signore, ascolta! Ah, signore, ascolta!» esce benissimo, giocato sul fiato, sui filati e sulle messe di voce; pure «Tu che di gel sei cinta» riesce commovente e ottimamente cantato, il miglior momento della serata. Non avrà la naturale nobiltà d’accento della Tebaldi, la dolcezza estrema della Freni, l’argentina sensibilità della Scotto o la trascinante pienezza emotiva e vocale della Callas, ma può migliorar molto: in questa serata, come che sia, si assesta certamente quale miglior cantante del cast. Di Igor Gnidii (Ping), Massimiliano Chiarolla (Pong) e Gianluca Floris (Pang) non si può che dir bene: ben armonizzati fra di loro, stagliano ognuno un ottimo fraseggiare e un canto di carattere fra il comico-grottesco (nella scena della dissuasione del I atto) e l’elegiaco (nella gran scena dell’inizio del II atto). Ottima la voce di Gianfranco Montresor, che ci regala un eccellente Mandarino (anche a livello di recitazione). Il coro regala, complessivamente, una più che buona performance, benché tutti i suoi innumerevoli ruoli (dalla folla, alle ombre dei morti) non siano adeguatamente differenziati a livello registico.

Un nuovo allestimento, questo romano di Turandot, che non convince a livello registico-scenografico, ma appaga sufficientemente a livello musicale/vocale – se ne saranno, probabilmente, resi conto gli ascoltatori di Rai Radio 3.

foto © Yasuko Kageyama / Teatro dell’Opera di Roma