La risata accanto a Verdi

 di Francesco Lora

Al Festival della Valle d’Itria torna il Don Checco di Nicola De Giosa, bell’esempio di sopravvivenza del genere buffo nella seconda metà dell’Ottocento. Il mattatore Domenico Colaianni è l’imprescindibile di uno spettacolo tutto vincente e festeggiatissimo.

MARTINA FRANCA, 31 luglio 2015 – Che ne è stato dell’opera buffa nella seconda metà dell’Ottocento, tra i tradizionali estremi del Don Pasquale e del Falstaff, e senza ricorrere a importazioni operettistiche di Offenbach e degli Strauss? Non v’era solo silenzio intorno a Verdi: Nicola De Giosa (Bari 1819 - ivi 1885) fu allievo prediletto di Donizetti e nella sua ricca produzione operistica acconsentì al genere serio, approcciò quello semiserio e – soprattutto – strapoté in quello comico. Fin dalle prime recite al Teatro Nuovo di Napoli, nel 1850, in particolare il suo Don Checco fece furore ed ebbe riprese in Italia e in Europa fino al primo Novecento. Il suo declino fu probabilmente indotto non dal soggetto (commedia borghese fuori dal tempo e sempre godibile), né dal napoletano (lingua d’espressione del protagonista: era in uso anche una traduzione italiana), né dalle richieste d’organico (comunque abbordabile: orchestra ordinaria e coro solo maschile), bensì dalla progressiva estinzione di compagnie di canto specializzate e pressoché stabili, le uniche che potessero masticare con scioltezza i lunghi dialoghi parlati intrisi di vernacolo.

Restituita alle scene nell’autunno scorso, al Teatro di San Carlo di Napoli in coproduzione con il Festival della Valle d’Itria, l’opera è stata ora ripresa nel cortile del Palazzo Ducale di Martina Franca (due recite: 21 e 31 luglio), con lo stesso allestimento ma con una locandina musicale ripensata per intero e migliorativa in ogni aspetto. I modelli di accompagnamento al canto guardano ecletticamente alla brillantezza innata di Rossini e Donizetti, ma anche a quella del Verdi degli ‘anni di galera’, con tratti di originalità stilistica tanto semplice nelle risorse compositive quanto efficace nel coinvolgimento dell’uditorio: alla testa dell’Orchestra Internazionale d’Italia, Matteo Beltrami dipana con trascinante franchezza la messe del materiale, e tiene saldamente le redini di uno spettacolo dove gli attori non perdono tuttavia un’oncia di spazio e libertà; e anche il Coro della Filarmonica di Stato “Transilvania” di Cluj-Napoca, già giustamente impassibile nelle vicine recite della Medea in Corinto [leggi la recensione], qui volentieri si scioglie, si diverte e interagisce alla pari, nelle situazioni e con i personaggi.

Formidabile, eccezionale, impagabile è Domenico Colaianni nella parte del titolo, composta in stile parlante per il celebre basso buffo Raffaele Casaccia: la ruvidezza dell’emissione non esclude la sua bontà tecnica, e anzi rende inconfondibile quella voce tra mille; e l’attore è al grado superlativo, con quella sua capacità di dosare al millimetro la tirata farsesca e la scenata patetica, di conferire eguale peso e morso alla parola sia nei dialoghi sia nel canto, di rendere perfettamente intelligibile la frase partenopea con l’aiuto del gesto e dell’accento, di restaurare un testo dimenticato e di speziarlo qui e là con battute allusive ai nostri giorni, di intonare il pimpante rondò finale con lo stesso esuberante divismo di una primadonna. Se non vi fosse Colaianni con il suo appassionato atto di difesa, oggi il Don Checco potrebbe sembrare poca cosa. È peraltro difficile immaginare, al suo fianco, un complice teatrale più recettivo di Carmine Monaco: impegnato come Bertolaccio, egli fa presto dimenticare d’essere stato scritturato come baritono e rimane alla mente come attore di popolare, esplosiva, iperrealistica simpatia.

Decisamente attendibile è la coppia amorosa, e non solo per i meriti individuali, ma appunto per il fatto di consistere in un tandem partecipe a vicenda, in conformità con le aspettative dei ruoli musicali assoluti e con quelli teatrali specifici. Carolina Lippo, come Fiorina, è di per sé un soprano lirico-leggero di grana tanto valida quanto comune, ma a darle valore speciale è lo spirito della vera primadonna buffa alla napoletana, fatto di arguzie, capricci, dubbiezze e malinconie tanto repentini quanto vivaci e sinceri: una caratteristica ieri ben diffusa ma oggi prostrata dal mercato globale del canto. Al fianco di lei, il tenore Francesco Castoro ha modi espressivi e mezzi canori egualmente miti e ragionevoli, franchi e cordiali, con un’organizzazione vocale non da virtuoso ma sempre onesta, espressiva e coronata dalla fragranza del timbro. L’ottimo assortimento riguarda anche le parti comprimarie, dove Rocco Cavalluzzi tiene con movenze fintamente sbadate e con polposa voce di basso il personaggio di Roberto, e dove Paolo Cauteruccio tiene con statura da caratterista le minacciose battute dell’esattore Succhiello Scorticone.

L’azione, tanto bene condotta da tanto abili attori, ha il proprio punto di riferimento nel regista Lorenzo Amato, cui non sfugge come un intreccio comico risulti tanto più sapido dall’alleggerire intorno al particolare che dall’aggravare con inutili controscene. L’attenzione è così richiamata sul testo in quanto tale, e dal punto di vista visivo meglio si apprezzano l’arte scenografica di Nicola Rubertelli e quella costumistica di Giusi Giustino: entrambi maestri della traduzione di Napoli in scena, qui essi si cimentano nell’imitazione non del golfo caldo, aperto e luminoso, bensì di un sobborgo innevato, in penombra e miserabile, con ciò esplorando nuove e benvenute vie del bozzetto e del figurino. In platea il pubblico si protende verso la scena, riscopre un compositore negletto e un genere dimenticato, gode del teatro di parola nel godere di quello musicale, si compiace di riconoscere qualche smaccata citazione rossiniana o donizettiana buttata giù nello stesso anno dello Stiffelio e del Lohengrin; applaude infine a quello che, tra i quattro spettacoli operistici martinesi dell’anno, risulta il più amato e festeggiato.

foto Paolo Conserva