L’essenza di Anna Bolena

 di Pietro Gandetto

Grande successo al Teatro Donizetti di Bergamo per l’edizione critica di Anna Bolena curata da Paolo Fabbri, con la regia di Alessandro Talevi e la direzione di Corrado Rovaris.

BERGAMO 29 novembre 2015 - Certe opere sono come quelle ville di campagna che passano di padre in figlio subendo i restauri dei passaggi generazionali. Negli anni, le pareti coperte da strati di pittura, i pavimenti sostituiti con nuovi materiali e l’arredamento rimpiazzato da pezzi “alla moda”. Così facendo, la villa di campagna si trasforma in una copia sbiadita della sfavillante dimora d’antan, perdendo il fascino e la magia che le erano proprie. E per Anna Bolena, in un certo senso, è andata un po’ così. Dopo la prima del 1830, l’opera è uscita presto dal repertorio e ripresa nel 1957 nella celebre produzione scaligera firmata Gavazzeni-Visconti, che, riadattandola al gusto dell’epoca riducentone, tra l'altro, drasticamente la durata, ne hanno dettato le sorti nei decenni a venire.

Oggi, nel contesto di un Festival Donizetti in cerca di rilancio, appare doverosa quanto audace la scelta della direzione artistica guidata da Francesco Micheli di mettere in scena l’edizione critica a cura di Paolo Fabbri di questo titolo, apparentemente fra i più noti della produzione seria del Bergamasco, in realtà tramandata attraverso continui rimaneggiamenti. Ecco ora, invece, una versione finalmente più aderente a quella della prima del 26 dicembre 1830: senza tagli, con le originali tonalità, le riprese, le transizioni, i recitativi (fondamentali e curatissimi) valorizzati come si conviene. Nessuno può dire come fu la prima del 1830 al Teatro Carcano di Milano, né quali fossero l’atmosfera, le indicazioni non scritte dell’autore, i colori che Giuditta Pasta ed Elisa Orlandi offrirono al pubblico in quella notte di Santo Stefano. Quel che, però, è certo è che questa Anna Bolena ha fatto centro nella creazione di una nuova idea di Donizetti, offrendo al pubblico il ritorno alle radici, ripulite da incrostrazioni tardoromantiche e sovrapposizioni, anche in senso virtuosistico, novecentesche. Un arduo cimento, invero ripagato con ampi consensi.

Tempo fa si affermava che Anna Bolena fosse un’opera qualitativamente superiore a quelle precedenti di Donizetti grazie all'affermazione della personalità individuale dell'autore rispetto all’eredità rossiniana e al confronto con Bellini. Tuttavia, sarebbe un grave errore considerare l'opera come un netto taglio rispetto al passato, giacché il modello delle ampie proporzioni e della drammaticità di scrittura di un'opera come Semiramide è ben evidente, così come la sensibilità al melos belliniano inserisce chiaramente la composizione in un milieu culturale denso di reciproche suggestioni (non a caso il 1830 è anche l’anno della prima dei Capuleti e Montecchi e il 1831 della prima di Norma). Diversamente dai due illustri colleghi, Donizetti dovette attendere fino a 33 anni, e scrivere un numero di opere quasi pari alla sua età, per ottenere con Anna Bolena un successo degno del suo talento. E non può negarsi che in questo lungo “apprendistato” il compositore sia maturato anche confrontandosi, assorbendo e rielaborando gli stimoli e gli esempi del rpesente e del passato più prossimo. Anna Bolena è, senza dubbio, un'opera determinante, con la sua influenza, per il futuro del teatro musicale, ma lo è anche e soprattutto per le sue solide radici e la sua compenetrazione del lessico belcantistico.

Così inquadrata, ben si comprende anche la direzione di Corrado Rovaris che abdica alle sfumature preverdiane della partitura in favore dell’enfasi riposta sugli stilemi rossiniani e belliniani. Pur liberi di aderire o meno a questa lettura antiromantica, meritato è il successo per una chiave di lettura che interpreta giustamente il belcanto non come mero sfoggio di colorature e abbellimenti di maniera (le variazioni sono invero misuratissime), ma ponderato strumento a servizio della tragicità dell’opera. Puntuale negli attacchi e nella declinazione del fraseggio, la direzione di Rovaris si fa apprezzare soprattutto per la capacità di miscelare dinamiche e colori in sintonia con le esigenze del canto, mantenendo tempi generalmente piuttosto ampi.

Della regia di Alessandro Talevi abbiamo apprezzato la capacità di porre in rilievo l’essenzialità del messaggio tragico dell’opera, con scelte concettuali ed efficaci nella declinazione della psicologia dei personaggi. Tralasciando qualche infelice trovata, come la leccata degli stivali di Seymour da parte di Enrico VIII, decontestualizzata rispetto alla situazione scenica e poco efficace, i movimenti registici sono soppesati e sapientemente dosati funzionalmente alla resa del dramma. Le eloquenti scenografie di Madeleine Boye ben hanno reso il clima di claustrofobica oppressione che caratterizza la corte di Enrico VIII. D’altro canto, avremmo forse anche apprezzato qualche spunto di rilucente colore (magari nelle tinte dell’azzurro e del bianco) per meglio evidenziare il sentimento di perdono che sorge nel cuore di Anna.

Anna è una donna in trappola, vittima sacrificale dell’altare pagano del sovrano inglese, che orchestra le più articolate trame come pretesto per ripudiarla. È una donna in bilico tra la disperazione per le atroci sofferenze di cui è preda e l’umano senso di misericordia che riserva a chi cospira ai suoi danni. Una donna che non perde mai la dignità e l’onore di una vera Regina e che, anzi, si affida alla dignità e all’onore per dare un senso alla sua morte e andare al patibolo a testa alta, così come effettivamente avviene nella regia di Talevi.

Riprendendo questi contenuti, Carmela Remigio ha messo a nudo la psicologia del personaggio, decliando i vari stati d’animo della regina con sapienza scenica e vocale. Nonostante il debutto nel ruolo, la partitura è dominata come un cavallo di battaglia, senza indecisioni di sorta. Ogni gesto è regale e dignitoso e anche nei momenti di disperazione, la fierezza della sovrana Tudor non viene mai sacrificata a vantaggio di una volgare disperazione. Vocalmente, il soprano pescarese esibisce una buona omogeneità timbrica, un fraseggio elegante e sostenuto senza sforzi anche nei passaggi più impervi. Il colore non è dei più drammatici, ma il dramma è insito nella musicalità di Remigio che sa piegare il proprio strumento al lessico vocale dell’autore e alle scelte interpretative del direttore. Particolarmente riuscita la scena della pazzia, in cui la forza della recitazione teatrale - esente da eccessi espressivi - ha consentito una piena immesimazione nei tormenti e nella sofferenza della moritura.

Di Alex Esposito, vogliamo segnalare la presenza scenica invidiabile e la buona solidità tecnica, accompagnate da una linea di canto ben plasmata ed elegante. La voce è calda, rotonda e sempre a fuoco per intonazione e proiezione nonostante le difficoltà del ruolo. Sotto il profilo attoriale, abbiamo apprezzato la capacità di rendere con pari efficacia espressiva sia l’auctoritas regia di Enrico VIII con i suoi tratti anche violenti e spietati, sia i dubbi e le fragilità più intimi di un uomo che, in fin dei conti, si rifugia nel livore per mascherare le proprie insicurezze nei confronti di una grande donna.

La Giovanna Seymour di Sofia Solovij ha alternato momenti di grande espressività ad altri di minor impatto. La performance è andata crescendo nel corso della serata e le aprezze iniziali nel registro acuto hanno lasciato spazio a un personaggio via via più credibile. Il ruolo di Giovanna Seymour - seconda donna di tessitura anfibia fra soprano e mezzosoprano - nelle intenzioni del compositore rispondeva all’esigenza di una vocalità che tenesse testa, per colore, intensità e fierezza a quella di Giuditta Pasta. Il risultato è realmente impegnativo ed esigente.

Performance non memorabile quella del tenore Maxim Mironov alle prese con la parte davvero insidiosa di Lord Riccardo Percy, resa, se possibile, ancor più ostica con l'apertura di tutti i tagli e il ripristino delle vertiginose tonalità originali. La vocalità tenorile brilla nelle le mezze voci e nelle impervie agilità del registro acuto, ma tutto questo a scapito di un volume davvero troppo esiguo e di alcune titubanze nell’intonazione. È inoltre mancata una convincente quadratura interpretativa.

Incisivo il Rochefort di Gabriele Sagona. Manuela Custer bene ha fatto come Smeton, pur mancando del dovuto spessore nel registro grave. Apprezzabile anche Alessandro Viola nel ruolo di Hervey. Bene il coro diretto da Fabio Tartari, con una nota di apprezzamento per la cornice corale offerta sul finale.

A fine spettacolo, copiosi consensi da parte di un pubblico completamente avvinto nell’atmosfera di commozione creata dal cast.

In conclusione, un eccellente prodotto della direzione Micheli che conferma l’alto livello di una tradizione operistica di antiche radici nella splendida cornice acustica e visiva del teatro Donizetti.

foto G. Rota