Algeri Psychedelic

di Roberta Pedrotti

 

Il XXXIV Rossini Opera Festival si inaugura con una nuova produzione dell'Italiana in Algeri che suscita non poche perplessità. Alla debolezza della protagonista risponderebbe un cast di indubbie potenzialità, ma l'insufficienza della concertazione rischia di affossare tutto, mentre Davide Livermore sovraccarica l'azione liberando senza limiti la sua inventiva registica.

PESARO (10/08/2013) - Davide Livermore è dotato di una mente vulcanica e genialoide, lo ha dimostrato tante volte. Capita, però, che come realizzi capolavori, così talora si lasci prendere troppo la mano e la sua inventiva, a briglia sciolta, si perda in mille rivoli smarrendo l'efficacia dell'idea portante. Questa potrebbe essere poi anche la più strampalata, giacché non è compito del regista rispecchiare le nostre convinzioni, ma saperci convincere della validità della propria idea, quale essa sia. Non ci scandalizza pensare a un'Italiana in Algeri ambientata in un mondo fumettistico e surreale ispirato agli anni '70, in cui tutto è eccessivo e gli stereotipi si esasperano. Non è un problema se Isabella assomiglia a Barbarella e fa l'eroina sexy d'azione alla maniera di personaggi che fingendo di ammiccare all'emancipazione femminile ne facevano semplicemente un pretesto per solleticare l'immaginario maschile. Non disturba il Lindoro in stile 007, né un Taddeo che somiglia un po' a Peter Sellers un po' a Groucho Marx (anche in versione Dylan Dog). Ci può stare un Mustafà arricchito con i petroldollari e qualche malaffare, re demenziale del cattivo gusto. Ci potrebbero stare perfino le caricature degli attendenti omosessuali, se trattate come si deve (In & Out, con la scena del test di virilità, docet). L'idea dei paradisi artificiali degli anni '70 e di acidi e oppiacei che ispirano i concertati di follia, poi, sarebbe anche gustosa. Ma la follia, oltre che assoluta, deve essere organizzata, non accumulare gag che spesso non trovano sviluppo e consequenzialità, come nel caso della schiava italiana alter ego decisamente meno attraente di Isabella, che appare di tanto in tanto a strappare qualche grassa risata solo per la sua fisicità tozza e sgraziata, senza un costrutto narrativo. Né è colpa di Sax Nicosia, che è un mimo e attore di straordinaria bravura, se proprio non ci fa ridere la macchietta dell'uomo in mutande rosa che si struscia svenevole con ogni maschio di passaggio (ecco la minaccia del palo per Taddeo!). Non è questione di politicamente corretto, ma solo di efficacia e opportunità di una trovata il cui profilo ci sembra un po' basso per il regista che nell'Aci e Galatea di Handel aveva cantato con tatto e poesia l'amore fra due donne distrutto da quello che l'attualità classificherebbe come femminicidio omofobo. Non vogliamo dare certo all'opera buffa un peso morale sproporzionato né incatenare il teatro nelle briglie delle meschinità odierne, ma è lo stesso Livermore che prende questa strada lasciando all'improvviso il mondo del fumetto, della commedia surreale e dell'avventura pura e semplice per riprendere temi già affrontati (con ben altra incisività) nei suoi magnifici Vespri siciliani. Ecco i Pappataci che sguazzano nella spazzatura e ripetono i festini in Lazio alla corte di “Er Batman”, ecco Isabella che canta "Pensa alla patri"a mentre la Tv denuncia l'assenza delloSstato per la cultura, le arti, tutto ciò che sarebbe suo dovere preservare. Giustissimo, condividiamo le posizioni di Livermore, ma così espresse, slegate dalle altre anime dello spettacolo perdono tutta la loro forza, sanno di retorica. E si crea per di più un brutto corto circuito, se Isabella appare come la prima delle olgettine e invita Mustafà a una “cena elegante” in cui si esibisce per lui (già imbottito di viagra come in un cinepanettone) in contorcimenti lesbo - (non troppo) chic con due odalische. Anche gli effetti speciali e il sincronismo fra azioni e proiezioni non è sempre filato liscio alla prima (i movimenti di Lindoro in piscina su tutti), nonostante l'indubbio valore di collaboratori come il costumista Gianluca Falaschi e lo scenografo Nicolas Bovey.

L'impressione alla fine è di pura saturazione senza un autentico sviluppo: un vero peccato se si pensa ad altre produzioni in cui Livermore aveva saputo concentrare la ricchezza della sua immaginazione in una linea stilistica e drammaturgica meglio definita. Certo, una pesante zavorra per questa Italiana in Algeri è costituita dalla direzione di José Ramón Encinar, assolutamente non all'altezza di figurare nel cartellone del Rossini Opera Festival, né tantomeno di inaugurarlo. Il non giovanissimo maestro (classe 1954) non ha mai frequentato l'opera italiana e la scarsa dimestichezza con il canto e il teatro sono, ahimé, lampanti in un incedere greve e omogeneo, totalmente impermeabile alle esigenze del palcoscenico, ma anche impreciso con l'orchestra, incapace di gestire un crescendo come di risolvere gli sfasamenti davvero troppo frequenti. In queste condizioni è evidente che anche le migliori intenzioni e le potenzialità della quasi totalità del cast vengano penalizzate. Non molto, a dire il vero, si sarebbe potuto ottenere di più da Anna Goryachova, che esibisce belle gambe, indossa il bikini con motivata disinvoltura ma non ha nient'altro da offrire a Isabella con la sua voce che conferma tutti i dubbi suscitati lo scorso anno come Edoardo nella Matilde di Shabran e aggravati dalla tessitura contraltile pensata per Maria Marcolini. Nel registro medio grave, sostanzialmente, la Goryachova in sala si sente poco o nulla, acquistando volume nelle occasionali puntature acute, non sempre ben controllate: non si può dire che tutte le più grandi Isabelle siano state autentici contralti, ma dominavano pur sempre la parte con altra classe, sia tecnica che carismatica. Diverso il discorso per Yijie Shi, che proprio con la tecnica e la musicalità fa sua una scrittura acutissima e, sebbene il passo del direttore lo affatichi un po', disegna un Lindoro assai piacevole anche per il piglio fascinoso ed esotico e ci rende sopportabile l'idea di ascoltare a Pesaro l'aria non rossiniana “Ah come il cor di giubilo” in luogo dell'alternativa d'autore “Concedi amor pietoso” (scelta opinabile perché priva di motivazione ufficiale, forse riconducibile alla ricorrenza del bicentenario della prima assoluta che comprendeva l'aria spuria) con la trovata maliziosa di alterare le consonanti del verbo cantando “trovar l'irata amante” sì da suggerire la sua strategia di riappacificazione. L'idea di scritturare un baritono lirico e brillante come Mario Cassi per Taddeo poteva essere foriera di un'interessante umanizzazione del personaggio, come lasciava intuire l'attenzione posta su frasi come “Questo core pensa adesso come sta” o “Ah Taddeo, quant'era meglio che tu andassi in fondo al mar” ma nel complesso l'occasione non sembra essere stata sfruttata fino in fondo né dal podio né dalla regia. Allo stesso modo, se l'intuizione iniziale intorno a Mustafà poteva svilupparsi in modo intrigante, alla fine abbiamo più che altro visto abusare ancora una volta dell'estrema disponibilità atletica e cinetica di Alex Esposito, che quando non deve correre, far capriole e salti mortali sa essere peraltro un attore di formidabile intensità e, ovviamente, un cantante di ben altra statura di quello, pur convincente nel complesso, ascoltato in quest'occasione. Se poi manca l'attacco di “Fratei carissimi, fra voi son lieto” non è certo colpa sua. Davide Luciano era Haly, efficace nonostante l'ancheggiare caricaturale. Mariangela Sicilia un'Elvira ben caratterizzata, buffa e disinvolta, dagli acuti una volta tanto ampi e saldi; Raffaella Lupinacci pure una Zulma convincente. Qualche contestazione al direttore e molte al team registico sono inevitabili e comprensibili. Il resto del cast, alla prima, ottiene invece unanimi approvazioni, talora festose, distribuite con giustizia e qualche punta di generosità.