Panni reali e curiali

di Roberta Pedrotti

Antonio Pappano, David McVicar, Gregory Kunde, Anna Caterina Antonacci, Daniela Barcellona. Basterebbero questi nomi (ma tutta la lunga locandina è ricca di pregi) per siglare una produzione memorabile, ma l'alchimia fra le personalità e le peculiarità di questi grandi artisti dà vita a risultati ancora più alti, che riportano in vita il mito e l'humanitas di Omero, Euripide e Virgilio. Un successo degno del nome della Scala per una coproduzione con il Covent Garden di Londra, la Wiener Staatsoper e l'Opera di San Francisco.

MILANO, 26 aprile 2014 - L'humanitas non è un monumento, non un'utopia. È una cognizione del dolore e della nostra natura. Non studiamo, come qualcuno crede, le lettere classiche per formare un metodo: per quello basterebbe esercitarsi con le equazioni e dedicarsi alla logica come disciplina indipendente. No, Omero, Euripide, Virgilio ci insegnano a conoscerci e riconoscerci, a dare un'anima alla logica, a coltivare il pensiero, la riflessione il ragionamento. Ci insegnano, nei loro versi, con un potere ineffabile, a piangere per Ulisse, per Ecuba, per Polissena, per Didone, e ogni lacrima sparsa per loro è una lacrima sparsa per la meraviglia e l'orrore che si cela in ogni essere umano.

Quando Ecuba entra in scena con le principesse troiane, quando Andromaca e Astianatte fanno la loro muta apparizione e Cassandra osserva il Cavallo, sappiamo quale destino li attende, e ci pesa sul cuore. Quando Didone è abbandonata e si trafigge con la spada Dardania, non hos quaesitum munus in usus (non richiesta in dono a questo scopo), sappiamo che nell'Ade si ricongiungerà a Sicheo e serberà in risposta al tardivo pentimento di Enea solo un altero silenzio e nemmeno uno sguardo. E ci pare di vedere Iris, pietosa, che recide l'ultimo legame della regina cartaginese con il mondo dei vivi. Possiamo allora capire il folle volo di Berlioz, che a questi stessi sensi, a questo stesso amore s'ispirò per l'ambizioso progetto di un colossale dramma in musica che abbracciasse il nucleo dell'Eneide prima dello sbarco in Italia, continuo fatale richiamo mai realizzato sulla scena, con la caduta di Troia e il soggiorno a Cartagine, che raffigurasse l'Odissea di Enea attraverso le due polarità femminili parallele, profetiche e consacrate dal suicidio, costituite da Cassandra e Didone.

La sua ambizione è un atto di pura volontà mosso da un sentimento che non possiamo non comprendere e non condividere, per quanto la partitura tradisca uno sperimentalismo e una tensione magniloquente che possono lasciare ammirati per la padronanza tecnica e la cura del dettaglio, anche ardito, ma mancano di autentica ispirazione e di un concreto senso del teatro. La ricerca timbrica e acustica ottiene effetti descrittivamente notevolissimi, per esempio nelle apparizioni delle ombre di Héctor nel II atto o dei nobili troiani del V, o nei suoni della notte cartaginese, o nel clarinetto che dà voce al pianto di Andromaque. Ma l'impressione è sempre quella di un risultato costruito artificialmente con somma scienza e articolazione di pensiero per realizzare un ideale, non di un grande capolavoro compiuto per il teatro.

Per renderlo tale sono necessari gli interpreti, che parimenti paiono attratti da una forza irrestistibile dallo stesso sogno classico di Berlioz, dallo stesso richiamo di Omero, di Euripide, di Virgilio, dall'humanitas del mito portata in scena con estremo conato di scienza strumentale, armonica, acustica. Così, loro, sul podio, in buca, sulla scena, in regia, danno vita all'eternità sempre rinnovata di queste vicende, che appartengono a tutti noi, che costituiscono le nostre vere, comuni, radici culturali.

L'anima è già nella cura prestata a ogni dettaglio di questo allestimento da parte di ogni artista. Tutti, è chiaro, lavorano di concerto credendo in un comune progetto, credendo in quest'opera pur senza far l'errore di volersi prendere troppo sul serio, fra didascaliche e pedanti zavorre. L'opera si eleva perchè si eleva, così, il suo stesso ideale, la sua anima, e il tecnicismo di Berlioz diventa strumento di straordinari narratori.

Quando Anna Caterina Antonacci entra in scena vediamo Cassandra in carne e ossa, reale, contingente ed eterna. Il mito incarnato in una compenetrazione della prosodia francese che non cessa d'impressionare, in un timbro tragico e aulico quale mai si può dire possa esser esistito uno eguale, in una maestria nel colore e nell'accento, in un carisma, in una femminilità, in una nobile autorità che si irradiano sia nella statuaria immobilità sia negli spasimi del delirio. Del pari, non avevamo mai visto Daniela Barcellona [leggi l'ntervista] così bella e radiosa al suo apparire, Didon regale, maestosa, materna, sì, ma anche donna fremente, fragile, delicata e sensuale: sorride al suo popolo e coglie poi subito, nell'intimità, il colore giusto per tradire, con la sorella Anna, la sua solitudine e il suo desiderio d'amore. Il finale, fra lucidità, vaneggiamento, profezia, dimensione politica, privata e sacra, vede il culmine di un'altra formidabile identificazione, perfettamente parallela e complementare fra le due primedonne protagoniste delle due parti dell'opera. Servite peraltro entrambe a meraviglia dai costumi di Moritz Junge, che dimostra di amare gli artisti sul palcoscenico e di saperne esaltare il fascino senza pregiudicarne la libertà di movimento, appagando l'occhio e dando comunque un preciso senso drammaturgico al proprio lavoro. La seta nera che avvolge e accompagna ogni movimento di Cassandre guizza nei toni grigi delle livide luci che accompagnano la caduta di Troia, brilla lucida fra le divise usurate e impolverate, fra gli abiti lisi della regina e delle principesse; il bianco e l'oro della Didon regnante fanno posto al verde rigoglioso e ai ricami della regina innamorata e, infine, al morbido e lucente grigio perla dell'amante abbandonata, mentre il suo popolo, un tempo sgargiante di tessuti mahgrebini e mediorentali, si ammanta di nero per una nuova guerra. La città ideale, quella che si edificava nel lavoro comune e nella pace, fra luci dorate e calde, fra tramonti e crepuscoli profumati, interrompe la sua crescita, si ribalta, dal cielo incombe come una luna colossale, infine si spezza, mentre dall'utopia degli uomini risorge un nuovo cavallo di armi e detriti ammassati, identico e minaccioso come il primo, illuminato come il primo, ma dalle enigmatiche fattezze umane. Se Troia era stata distrutta dal simulacro equino è stato ora l'eroe Enée a distruggere l'utopia di Cartagine? Il destino, grandioso e terribile, è segnato fin dall'inizio, lo proclamava Cassandre, lo annunciano gli spiriti dell'Ade e Mercure, con l'ombra delle sue ali spettrali, lo ribadisce, morente, Didon, ma resta pur sempre tutto da scrivere.

Nelle scene di Es Devlin, le mura circolari, incolori, fredde, usurate di Troia un tempo erano forse come la calda e accogliente Babele cartaginese; David McVicar non lascia nulla al caso, studia il testo con acribia, perfino, perché non vi sia nulla che non trovi corrispondenza con la partitura, con il Mito. Ma non rinuncia, nel contempo, a interpretare. È semplicemente uno dei più grandi registi al mondo, un artista che sa lavorare con la musica e nella musica, che rende significativo ogni gesto e ogni sguardo di qualsiasi vivente in scena, ogni minimo dettaglio di qualsivoglia elemento inanimato (mai abbastanza lodato l'inestimabile artigianato teatrale che ha permesso di realizzare questo allestimento) o riflesso luminoso (qui a cura dell'eccezionale Wolfgang Göbbel). E conosce l'ironia, come dimostrano le coreografie di Lynne Page, classicissime ma non seriose (con quella musica parrebbe francamente impossibile!), commuoventi quando i bambini troiani interrompono le esibizioni militari, azzeccatissime nel quadro mitologico della caccia reale o nelle feste cartaginesi. Solo le categorie della perfezione potrebbero definire uno spettacolo così ricco di stimoli e spunti di riflessione, così ben realizzato nella definizione di ogni personaggio e nel disegno drammaturgico complessivo. E l'eventuale, minima, imperfezione, non farebbe che esaltarne la toccante umanità, la dolorosa verità del Mito a ogni sua rinascita sulla scena.

Per questo non si poteva immaginare miglior compagno di viaggio per McVicar, e miglior guida musicale per la monumentale produzione, di Antonio Pappano, uomo di teatro almeno quanto il regista è sensibile alle ragioni del canto e della musica. Insieme lavorano di pari passo con un ritmo narrativo calibrato fra espansioni e tensioni, dramma ed estasi, ironia e solennità. Il sostegno al canto non è altro che intelligenza drammaturgica, per cui ogni voce è un personaggio e deve avere il suo spazio nella partitura e nella scena, una sua linea e un suo fraseggio, in un sovrano equilibrio collettivo. L'orchestra e il coro, così, appaiono in stato di grazia e danno forma a tutte le soluzioni sperimentali e grandiose di Berlioz con una verità e una partecipazione, con una precisione e un'efficacia più uniche che rare, degne, finalmente, di un grande teatro internazionale di cui andare fieri nel mondo.

Non v'è nulla che non paia naturalissimo, necessario, eppure incisivo, avvolgente, incantevole per la pura bellezza di questa adesione totale alla musica e al teatro.

Così, perfino il Chorèbe di Fabio Maria Capitanucci colpisce più per l'eleganza e l'espressione del porgere che non per l'affaticamento vocale. Così, l'altro astro della locandina, con le due primedonne, splende in tutta la sua luce: Gregory Kunde è un Enée smagliante, perfetta incarnazione dell'eroe classico e dei suoi valori incrollabili, ma anche uomo capace di vivere sinceramente quelle tenerezze, quei sentimenti e quelle passioni che è tuttavia pronto a sacrificare. I suoi acuti non sono esibizioni, sono lucenti, salde espressioni di un'ideale semidivino, araldico, proprio dei protagonisti del Grand Opéra discesi dall'haute contre della Tragédie Lyrique e pronti a ispirare poeti, cavalieri ed eroi di Wagner. La radice stilistica coniuga la declamazione francese e l'afflato belcantistico con l'intelligenza di cogliere la peculiarità dello sperimentatore Berlioz e della sua epoca.

Gli altri tenori sono Shalva Mukeria, bravissimo, con il suo specifico colore freddo ed eburneo, nel tratto poetico quasi astratto di Iopas, e Paolo Fanale, che, con altro calore, risponde nel canto nostalgico, più spontaneo e popolare, di Hylas. Entrambi perfetti nei rispettivi ruoli. Come perfetto il fresco Ascagne di Paola Gardina, e tutto il gruppo della corte troiana: il Priam altissimo, smagrito, quasi mummificato, impressionante di Mario Luperi, l'Hécube regale e materna di Elena Zilio, magnetica e commuovente in ogni gesto, la Polyxène forte e sottile di Sara Catellani, l'Andromaque e l'Astyanax, così dolenti e dignitosi, dei mimi Sara Barbieri e Alessio Nuccio. Anche i ruoli minimi si fanno ricordare, tutti sono delineati con la giusta forza. Anche Deyan Vatchkov, L'ombre di Héctor, fa la sua apparizione raggelante, avvicinandosi come un'ombra che serpeggia sul pavimento per poi ergersi, sfigurato dall'oltraggio di Achille, in una profezia imperiosa. Incisivo pure il Panthée di Alexander Duhamel, che ritroveremo come vigorosa presenza a Cartagine, dove invece non approderanno Luciano Andreoli, un soldat, Oreste Cosimo, Hélénus, ed Ernesto Panariello, un chef grec.

Sulle sponde africane discenderà invece il solenne Mercure di Emilio Guidotti e incontreremo i soldati troiani di Guillermo Esteban Bussolini e Alberto Rota (impegnati nel loro duetto antieroico che Berlioz disse ispirato a Shakespeare, ma che ricorda anche certe scene dell'opera veneziana seicentesca), l'Anna meno interessante per emissione e linea di canto di Maria Radner e il Narbal viceversa assai autorevole di Giacomo Prestia, di paterna saggezza.

Cinque ore e mezza punteggiate da tre intevalli e - nelle poche occasioni concesse da Berlioz in una partitura che comprende sì numeri chiusi ben definiti ma nondimeno strettamente saldati l'un l'altro - da ovazioni fragorose, acclamazioni entusiastiche e manifestazioni del più travolgente tripudio. Festeggiatissimo soprattutto Pappano, per il suo debutto scaligero, a lungo atteso e si spera foriero di un rapporto sempre più stretto con Milano.

Talvolta si abusa della parola trionfo, in questo caso diviene un eufemismo. Questi sono spettacoli che fanno la storia del teatro, e non solo, spettacoli che ci permettono di piangere ancora insieme per le donne di Troia, per la sorte di Didone.

foto Brescia Amisano