Il giardino inaridito

di Roberta Pedrotti

Armida, priva di una protagonista credibile, naufraga senza approdare nel suo giardino incantato nella serata inaugurale del XXXV Rossini Opera Festival, fra la regia stanca e ormai anacronistica di Luca Ronconi e la direzione approssimativa e incolore di Carlo Rizzi.

PESARO, 10 agosto 2014 - Peculiarità del Rossini Opera Festival è sempre stata l'amore per le sfide, sempre accolte, anche ricercate, con entusiasmo, talvolta vinte, talvolta no. Certo, un titolo come Armida rappresenta in questo senso uno spericolato salto senza rete, per quanto nel 2014 si possa contare su una scelta ampia e succulenta di voci tenorili, così preziosa in una partitura che affida loro ben sei dei suoi nove personaggi. Non altrettanto ampio è lo spettro dei nomi che si potrebbero prendere in considerazione per la protagonista, per la quale il rischio, inevitabile, deve essere ben calcolato, altrimenti una scommessa persa si può tradurre nel repentino naufragio dell'intera produzione.

Per nessun ruolo di primadonna, e parlando di Rossini l'equivalenza è inevitabilmente con Isabella Colbran, il carisma è dote facilmente rinunciabile, ma per Armida diventa conditio sine qua non. In qualunque prospettiva la si guardi, la principessa di Damasco è seduzione, è magnetismo, è fascino, tale che perfino i versi del Tasso, nel descriverne la sensualità, l'innocenza, la malizia, l'abilissima favella (dante l'avrebbe detta un sorprendente loïco dimonio), tradiscono il turbamento del poeta di fronte al suo stesso personaggio. Un turbamento ineffabile, che come tale può essere incarnato e sublimato insieme in un belcanto astrale e caleidoscopico. Per questo Armida non può reggersi, come invece altri ruoli, solo sul professionismo e sulla correttezza.

Tuttavia, se l'interprete scelta per aprire il trentacinquesimo ROF non brilla per personalità, non impone la sua presenza al solo entrare in scena, non incanta e non colpisce, nemmeno si può dire che assolva almeno al suo compito intonando diligentemente la parte. Carmen Romeu - Armida trasparente non tanto per il fatto di aver scelto di privilegiare il lato delicatamente femminile su quello sapienziale e soprannaturale quanto per non avergli poi conferito alcuno spessore - è infatti assolutamente impari al ruolo per estensione, tecnica, natura. Gli acuti vetrosi, tendenti allo strillo, s'innestano in un canto spesso affaticato, flebile nella coloratura, opaco, né sono compensati dal registro grave, insignificante. È presente aria nella voce, segno di uno sforzo che si fa palese nelle chiuse imbarazzanti soprattutto di “D'amore al dolce impero” e del finale ultimo, in cui definire bagnate le polveri dell'esplosione pirotecnica sarebbe pietoso eufemismo.

Ci si chiede come la Romeu, già buona e promettente seconda donna in altre occasioni, abbia potuto compiere un così madornale errore di valutazione dei propri mezzi immolandosi ancor giovane allo spietato altare di Armida, e come abbia potuto permetterlo chi l'ha scritturata e chi l'ha consigliata.

Di certo né la regia né la direzione sono stati di aiuto.

Da un lato abbiamo Luca Ronconi che, a trent'anni esatti dal suo debutto pesarese, è ormai l'ombra di se stesso. Nulla di male, il tempo passa per tutti e Ronconi ha già avuto modo di scrivere la storia del teatro, ma questa storia nel frattempo è andata avanti e fa un certo effetto pensare che proprio la sera prima dell'inagurazione il ROF aveva offerto un'anteprima in memoria di Claudio Abbado proiettando in Piazza del Popolo il filmato del memorabile Viaggio a Reims del 1984. Allora sì, con l'interazione fra interno ed esterno, fra teatro e video, si creò qualcosa di veramente geniale, innovativo, destinato a divenire un classico intramontabile e una pietra miliare del teatro in musica. Oggi, per contro, vediamo uno stanco Ronconi che riprende a giocare con i pupi senza trovare la forza ironica e straniante di una sorta di epica brechtiana e popolare, ma limitandosi a ripetere qualche cliché fissando i cantanti in un angolo o in un altro del palco, lasciando i coristi a sé stessi maneggiare goffamente le loro armi indecisi sul da farsi. È stanco, sì, e triste questo Ronconi che non riesce più a essere se stesso forse perché, ormai, la sua lezione è stata fin troppo bene appresa, meditata, rielaborata e superata da altri. Nemmeno le danze, che alludono come in una moderna rapsodia tersicorea ai temi e alle vicende della Gerusalemme liberata, riescono a sviluppare appieno uno spunto concettualmente fecondo. Alla fine il più convincente gusto ronconiano della serata è stato quello involontario: la presenza (non indolore per la distribuzione del pubblico in sala) di quattro telecamere della Rai, in vista della trasmissione televisiva del 14 agosto, sui cui monitor si potevano sbirciare in diretta dettagli e inquadrature. Citiamo, per la cronaca, la costumista Giovanna Buzzi, la scenografa Margherita Palli, i coreografi Michele Abbondanza e Antonella Bertoni, gli ideatori delle luci A.J. Weissbard e Pamela Cantatore.

D'altro canto, Carlo Rizzi (in luogo del quale era stato in un primo tempo previsto Roberto Abbado) batte il tempo con inesorabile, plumbea pesantezza: non un colore, non un dettaglio illuminano le passioni marziali e amorose, gli antri infernali e i giardini incantanti. Tutto grigio e opaco, come l'anonima armatura di un cavaliere che non abbia avuto la ventura, al pari di Achille, di un Efesto che ne istoriasse lo scudo. Un'armatura per di più ammaccata, perché non si può dire che tale plantigrada marcia avanzasse con precisione impeccabile dall'inizio alla fine, sia negli insiemi, sia nella resa dell'orchestra e soprattutto del coro del Comunale di Bologna (preparato da Andrea Faidutti), mai sentito così spento e privo di nerbo.

Che i cantanti siano portati a forzare senza grande spazio – e stimolo – per l'interpretazione è così praticamente inevitabile. Ne patisce Antonino Siragusa, che avrebbe la disinvoltura rossiniana, la sensibilità e musicalità per creare un Rinaldo di rilievo anche a dispetto di una tessitura un po' bassa per lui, ma che si trova a dover combattere con una bacchetta anodina che banalizza ed estremizza le intenzioni di cotrasto fra l'amante e l'eroe.

Nessuno, poi, sembra essersi premurato di spiegare a Dmitry Korchak che Gernando e Carlo non siano la stessa persona e che il canto del secondo, nobile e fiero, debba armoniosamente sposarsi con quello di Ubaldo, e non fare a pugni astiosamente con tutti per far valere i propri diritti guerrieri. Così ha finito solo per forzare inopinatamente, pregiudicando musicalità ed equilibrio negli assiemi, considerato pure che Randal Bills (Ubaldo nel terzo atto e Goffredo nel primo) ha voce di spessore e proiezione piuttosto modeste, oltre che coloratura non ben appoggiata sul fiato. Del petulante e nasale Eustazio basti dire che rispondeva al nome di Vassilis Kavayas.

Unica voce grave, per due diabolici personaggi fusi in uno solo (Idraote e Astarotte), era Carlo Lepore, a metà fra un pipistrello e il disneyano Chernabog, anche lui penalizzato dalle zavorre del podio e dall'inanità della regia.

Nel corso della serata sparsi applausi (dopo l'aria di Gernando e dopo il terzetto dei tenori) un'isolata contestazione al termine di “D'amore al dolce impero”, dopo le danze e, poi, più numerose, al termine, tutte per la protagonista. Grazia aperta per gli altri, forse anche per una forma di affettuoso rispetto per l'ottantunenne Ronconi.

In attesa, fervida e speranzosa, delle altre due prime (Il barbiere di Siviglia e Aureliano in Palmira), già annunciati i titoli del 2015: La donna del lago, La gazzetta, Adelaide di Borgogna e, finalmente dopo vent'anni, la Messa di Gloria. [Adelaide di Borgogna è stata poi annullata in favore di Ciro in Babilonia ndr]