di Roberta Pedrotti
G. Rossini
La donna del lago
Carteri, Valletti, Companeez, Ruhl, Washington
direttore Tullio Serafin
Firenze, Teatro della Pergola, 9 maggio 1958
2CD Opera di Firenze/Maggio Musicale Fiorentino OF002, 2014
Prima masterizzazione della registrazione originale della ripresa dell'opera in tempi moderni
Quando si parla di una registrazione che apre una collana di rimasterizzazioni tratte da una miniera di diamanti quale può essere l'archivio del Maggio Musicale Fiorentino sembra d'obbligo aprire con convenevoli cui non ci sottraiamo. L'iniziativa è lodevolissima, buona la resa audio, allettante come pochi il catalogo, più che onesto il prezzo. Rendiamo, dunque, doverosamente merito al Maggio e alla Dischi Fenice s.r.l. per l'iniziativa, che ci porta a riscoprire non solo interessantissime esecuzioni d'epoca, ma anche e soprattutto straordinari documenti della storia dell'interpretazione e della riscoperta di alcuni titoli.
Che, prima della nascita del Festival di Pesaro, la riscoperta dell'opera seria (e non solo, basti pensare al Comte Ory) rossiniana abbia avuto fondamentale primo impulso a Firenze, con l'iniziativa in primis di Vittorio Gui, è cosa risaputa. Toccare, tuttavia, con mano la realtà di quelle recite è un'esperienza illuminante.
Soppesiamo questo cofanetto snello compiacendoci dei nomi di Rosanna Carteri e Cesare Valletti in locandina, con tutta la curiosa aspettativa di chi nutre grandissima stima nei loro confronti, con il realismo di chi non li immagina a gareggiare con i virtuosismi e le cognizioni stilistiche di una Cuberli o di un Blake.
Inseriamo il CD nel lettore, senza nemmeno pensare a leggere le note di copertina o la lista delle tracce: l'opera è talmente nota che, se anche qualche taglio è da considerarsi inevitabile, il racconto storico di questa recita si potrà sfogliare più tardi, pensiamo, mentre l'ansia dell'ascolto è impellente. Certo, pur suscitando più interesse che fastidio, gli anni si fanno sentire, per esempio nel rimaneggiamento della chiusa del coro dei cacciatori che conclude di fatto il blocco introduttivo con una brutta, netta cadenza e ascesa all'acuto, per il gusto odierno soluzione perfida. La sorpresa viene però dopo il duettino “Vivere io non potrò”, quando il familiare incipit del coro guerriero “Qual rapido torrente” viene preceduto da un interludio orchestrale elaborato dal temi guerresco nel successivo ingresso di Serano. La sortita di Rodrigo è – prevedibilmente – assai addomesticata nei suoi estremi e – meno prevedibilmente – orbata del cantabile “Ah! Dov'è colei che accende”, ovvero di una delle pagine che Stendhal più amò di tutta la produzione rossiniana. Tagli, taglietti, varianti armoniche e melodiche più o meno significative si susseguono facendo anche cadere il travolgente tempo d'attacco del terzetto del secondo atto “Misere mie pupille”, innestando alla meno peggio l'ingresso di Rodrigo “Parla, chi sei?” subito dopo la consegna dell'anello a Elena “E ad appagarti intento sempre il mio cor sarà”, così come la scure implacabile piomba sulla seconda aria di Malcom, “Ah! Si pera, omai la morte”.
Siamo nel 1958, la preparazione virtuosistica dei cantanti e la cognizione filologica non possono farci sperare molto di più, ma certo non ci fanno immaginare di ascoltare un finale che, evidentemente, non poteva accettare una conclusione rapida, fiabesca e non immemore del mito illuminista del monarca clemente. Là dove nel libretto di Andrea Leone Tottola Giacomo V ostenta fierezza contro il ribelle Malcom solo per marcare maggiormente, in una manciata rada di versi, il perdono e la nobile rinuncia definitiva a Elena, una sensibilità segnata dal tardo romanticismo e dal verismo sembra esigere un più ampio contrasto, una perorazione dell'eroina che vinca il rigore del re, amante respinto. Così si inserisce il celeberrimo quartetto di Bianca e Falliero, opera affatto sconosciuta all'epoca (se non nelle edizioni ottocentesche dell'integrale rossiniana per canto e piano da parte di Ricordi) ma pezzo singolo di grandissimo successo, adorato da Stendhal e ripreso, per esempio, dallo stesso Pesarese nella versione veneziana di Maometto II. Un arbitrio quasi più drammaturgico che musicale, in fondo, perché se questa contesa per la salvezza di Malcom va a tutto detrimento del fascino magnanimo di Giacomo V, il rondò finale di Bianca e Falliero, che segue il Quartetto “Cielo, il mio labbro inspira”, è preso esattamente dalla Donna del lago, quindi una sovrapposizione dei due finali potrebbe avere anche una sua curiosa forma di coerenza filologica. Di più, i versi di Bianca prestati a Elena “Il mio ben non m'uccidete! | Ah! Se in voi di sangue è sete, | tutto il mio versate allor!” potrebbero idealmente echeggiare quelli già cantati, e originali, nel terzetto “Io son la misera, | che morte attendo... | Su me scagliatevi... | Non mi difendo... | Se i giorni miei | troncar vi piace, | d'orror la face | si spegnerà.” Non è, però, il rondò “Tanti affetti, il tal momento” che ascoltiamo a seguire: anche quello che è divenuto il brano più celebre dell'opera rimase occulto nella prima ripresa moderna. Ne fa le veci un epilogo di riconciliazione e congedo in cui Elena e Giacomo riprendono il duettino del primo atto “Scendi nel piccol legno” con l'inserto – leziosetto assai – del coro. Mutatis mutandis rispondendo qui il responsabile al nome di Vito Frazzi, la mente corre all'adattamento dell'Idomeneo mozartiano realizzato qualche annetto prima da Richard Strauss. Il clima sospeso, la conclusione quasi in sordina, dissolta in una romantica bruma scozzese doveva evidentemente apparire molto più coerente, per il gusto e le aspettative dell'epoca, del tradizionale rondò della primadonna. Per questo, ciò che in termini assoluti non esiteremmo a definire un abominio contestualizzato storicamente diviene un documento del massimo interesse, che se ci toglie, per di più, l'opportunità di assaggiare il “Tanti affetti” della Carteri, ci offre la primizia di una sua Bianca, soprattutto di quello splendido, vivido racconto “Al fianco mio, meco stava” che poche hanno cantato così bene. Stesso discorso vale, peraltro, per tutte le pagine originali della Donna del lago, nelle quali il soprano veronese spazza via con un sorriso tutte le nostre elucubrazioni sul soprano (o mezzo) Colbran. Basta cantar bene, semplicemente, sembra dirci dipanando con una facilità impressionante la tessitura bassa del ruolo, mantenendo un colore dolcemente femminile, con ombreggiature morbide e misteriose, decisamente seducenti. Il gusto nella parola, l'eleganza innata, una coloratura più che soddisfacente vista l'epoca non fanno che confermare la grandezza di un'artista forse non ricordata come meriterebbe fra i più grandi soprani del XX secolo.
Cesare Valletti si conferma a sua volta il tenore di classe che conosciamo. Ovviamente, rispetto a quanto siamo abituati ad ascoltare e abbiamo appreso dall'edizione critica, la scrittura appare semplificata, ma resta l'idea di un fraseggio ampio e regale, di una nobiltà del trattar la frase sempre ammirevolissima, con una declamazione sempre incisiva. Quel che colpisce è, però, proprio come i passi meno convincenti per quanto concerne la pura e semplice emissione coincidano in massima parte con le alterazioni del testo. Il libretto di Andrea Leone Tottola risulta, infatti, di continuo riscritto, ora semplificato (“il lasso fianco” suona qui “la stanca destra”), ora viceversa reso più letterario (“ti sia la mia capanna” diviene “ti sia la mia dimora”, “voce sparsa così” “noto è il suo soffrir”), ora, perfino, modificato con espressioni sostanzialmente equivalenti per senso e registro, ma, comunque, con slittamento semantico (“O sposi o al tenebroso regno” sembra anticipare i finali di Aida e Don Carlo se suona “O sposi o entrambi il Ciel ne accolga”). Spesso le varianti conferiscono diverse sfumature politiche e sociali, come quando Elena – che si rivolge pur sempre a un re, per quanto in incognito – canta “Signor, recar ti puoi” invece dell'invito più deciso musicato da Rossini “Signor, recar ti dei”. Naturalmente la musica è modellata sui versi originali, ma quelli alternativi si rivelano talora addirittura d'ostacolo, costringendo la coloratura su vocali più scomode o spezzando la frase musicale nell'articolazione della parola. Proprio perché si tratta di una bellissima interpretazione e, nello specifico, di una delle migliori letture di “O fiamma soave” testimoniate dal disco, è significativo rilevare come emergano tutti i limiti dell'alterazione. L'esecuzione splendida si sposa a un'analisi archeologica della prassi esecutiva e della concezione del belcanto che non fa che ribadire l'importanza fondante del testo, il suo legame con la scrittura vocale, infine la profondità drammaturgica di questo repertorio così come è stato concepito.
Valletti e Carteri vengono da un'epoca in cui il linguaggio del primo Ottocento era ancora terreno da esplorare, una terra che affascinava molti musicisti ma per conoscere la quale dovevano ancora esser rinvenuti e creati tutti gli strumenti. Valletti e Carteri sono, però, anche esponenti di una civiltà del canto che nelle scuole ottocentesche ha la sua radice, ed escono vincitori per la nobiltà della loro arte, per la saldezza della loro tecnica, lasciandosi ascoltare ancor oggi, in più punti alla pari con i colleghi della Rossini Renaissance.
Non demerita comunque la meno nota Irène Companeez, un Malcom dal bel piglio e dal bel timbro contraltile davvero androgino, complessivamente attendibile nella cavatina (qualche fiato in più e parecchie note in meno son menda veniale, tutto considerato: la Horne al tempo cantava da soprano in cori e parti minime) e nel duettino come nel finale primo, fino alle frasi di Falliero nel concertato spurio finale. Eddy Ruhl affronta la parte di Rodrigo addomesticata nei passaggi più scabrosi, priva della poesia di “Ah dov'è colei che accende” come della sfida saettante di “Misere mie pupille”: il personaggio, ovviamente, perde slancio, appanna la sua protervia guerriera per sfumare in un cavaliere quasi gentile, dalla caratteristica R esotica, ma l'interprete non improprio per accento ed emissione.
Paolo Washington, Douglas, è bel saldo in quel che resta dell'aria – non rossiniana – di Douglas, che bella non è né guadagna dall'esser così abbreviata. Potrà sembrare un paradosso, ma anche il brano meno felice della partitura conferma di avere, nella sua integrità, un proprio funzionale equilibrio.
Per scrupolo nazionale, ancora nel dopoguerra, il cortigiano battezzato da Tottola Bertram vien tradotto qui come Bertrando ed è cantato, come Serano, da Valiano Natali. Albina è Carmen Piccini.
Tullio Serafin dirige, abbiamo detto, un testo profondamente alterato e alcune articolazioni di fraseggio e dinamica, così come certi equilibri timbrici e sonori possono apparire inusuali al nostro orecchio. Gli va comunque reso il merito della ricerca di una tinta specifica – così importante in quest'opera – e di aver coniugato le ragioni del dramma con quelle del canto assicurando l'interesse dell'ascolto.
Interesse che, non ci stancheremo mai di ripeterlo, è massimo e a più livelli: interesse per le prove vocali, che fotografano l'idea di canto rossiniano nell'Italia degli anni '50 e restituiscono le performance di due dei più raffinati artisti del secolo scorso; interesse per le varianti testuali, per la stratificazione di alterazioni poetiche e semantiche e per il rapporto fra la parola e la frase musicale; interesse per un'elaborazione della partitura riflesso di un'idea di teatro d'opera, di recupero filologico, una poetica che val la pena di conoscere e approfondire in tutti i suoi molteplici aspetti.
Resta un'unica nota editoriale a margine: è facile comprendere che per questioni anche economiche l'inserimento del libretto completo dell'opera nel cofanetto avrebbe potuto risultare oneroso, ma ci auguriamo che il Maggio Fiorentino, accanto a questa collana di registrazioni storiche, possa arrivare un giorno anche a digitalizzare e mettere a disposizione on line anche libretti e programmi di sala, così da poter consultare i testi cantati - ed eventuali contributi critici - così come vennero redatti e adattati per l'occasione.
Corroborati da questo ascolto straniante, che ci aiuta a vivere in una prospettiva storicamente diversa il nostro rapporto con il capolavoro protoromantico di Rossini, leggiamo le note stese con la consueta amabile, appassionata competenza da Giovanni Vitali e corredata da belle foto di scena. Con la ricognizione sulla storia dell'incisione, l'avvertimento sulle varianti apportate da Vito Frazzi e un cenno sugli interpreti, troviamo anche il ricordo di quella prima. Erano presenti in sala Renata Tebaldi e Alberto Sordi, che solo due anni prima aveva condiviso con la Carteri il set di Mi permette, babbo? (in cui il soprano veronese dipana uno dei più bei “Prendi, quest'è l'immagine”). La critica rimase fredda, ma non Massimo Mila e Giovanni Carli Ballola, che compresero la portata dell'evento e il valore della Donna del lago. Resta la curiosità d'immaginare se quest'effetto sarebbe stato lo stesso, se il successo più vivo e condiviso o più tiepido, all'ascolto dell'opera completa e inalterata. Ma anche questo fa parte del fascino indiscreto della storia.