di Roberta Pedrotti
Il Teatro Coccia di Novara risponde al blocco dell'attività imposto dall'emergenza sanitaria con un'opera nata appositamente per le piattaforme online. Abbiamo chiesto agli interpreti e agli artefici di raccontarcela. Ecco come Alfonso Antoniozzi ci parla della sua esperienza con Alienati, ma anche di come sta vivendo questo periodo e delle sue riflessioni sulla professione dell'artista teatrale, sull'essenza stessa del teatro.
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Alfonso, solo leggendo la trama di Alienati, questo personaggio di psicologo e collante fra varie piccole e grandi follie sembra essere cucito addosso a te. Hai contribuito a crearlo?
No, ma pare che i librettisti De Vivo e Valanzuolo, che conosco da anni, abbiano intuito perfettamente quale sia stata la mia reazione di fronte a questo lungo periodo di isolamento in cui, complice il fatto che “tanto stai a casa che avrai mai da fare”, il telefono, whatsapp, le mail, le videoconferenze non stanno cessando un attimo. Una faccenda che ti assicuro sto vivendo come un’invasione e non vedo l’ora di poter rispondere “scusa, ora non posso, sono in prova/a teatro/al cinema/a fare lezione/a Timbuctù”.
Non è il tuo primo incontro con la musica contemporanea, anzi! Qual è il suo rapporto con la musica di oggi e le nuove creazioni? Come ti trovi a collaborare direttamente con i compositori?
Credo che per un interprete sia fondamentale collaborare con i compositori viventi: se chi ci ha preceduto avesse avuto nei confronti dei compositori loro contemporanei il medesimo atteggiamento che molti colleghi hanno coi contemporanei odierni, nessuno avrebbe cantato Verdi, Puccini, Donizetti e via discorrendo. La musica contemporanea rema decisamente contro la concezione “museale” dell’Opera, quella per cui si vorrebbe si ripetessero solo certi titoli e solo fatti in un certo modo. Per quanto mi riguarda, l’unico limite che pongo è che la musica serva il teatro e non sia un mero esperimento intellettuale o, peggio, intellettualistico. Quindi canto solo partiture la cui scrittura musicale mi convinca teatralmente. Fortunatamente, anche in questo caso, ho trovato nei compositori degli artisti che si mettono a servizio della musica e dell’arte e che non si chiudono a riccio a difesa della loro creazione quando càpiti che la loro scrittura crei difficoltà interpretative a chi deve trasformarla in un personaggio teatrale.
Non sei certo nuovo a diverse forme di teatro, a spettacoli multimediali, a lavorare di fronte alla telecamera come nel W Verdi con Davide Livermore. Ora arriva l'opera in “smart working”: come hai accolto la proposta e come sta andando questo esperimento?
Secondo me questo esperimento è un valido divertissement casalingo sul tema del forzato isolamento, dimostra che un direttore di teatro intelligente è in grado di immaginare una formula che vada fuori dagli schemi, capace di intuire che ogni problema offre anche una soluzione se si è in grado di guardarlo da un punto di vista diverso. Premesso questo, una forma di intrattenimento artistico e musicale come quello che proponiamo non può e non deve sostituire l’opera fatta in teatro, che è una forma di spettacolo che ha un suo specifico, che si appoggia su specifiche professionalità che in questo esperimento non possono essere presenti, e che vive e respira insieme al pubblico che dello spettacolo non è unicamente parte “osservante” ma elemento fondamentale per la sua riuscita.
Recentemente hai pubblicato due bellissimi articoli sulla figura professionale del cantante lirico e sul rapporto con il pubblico. Questioni (e problemi) non nuovi che oggi emergono con particolare evidenza. Ci vuoi riassumere alcuni punti per te fondamentali su cui bisogna riflettere? Che timori e che speranze ha per il futuro?
Io credo che innanzitutto dobbiamo tutti prendere coscienza, anche gli artisti, che il nostro è un lavoro. E’ il lavoro più bello del mondo, secondo me, ma è un lavoro e come tale ha doveri e diritti. Sarebbe quindi opportuno usare questo momento di stallo forzato per reimmaginare una forma contrattuale che faccia piazza pulita di quella, pericolosamente sbilanciata a favore dei datori di lavoro, che firmiamo oggi e che introduca, ad esempio, il pagamento dei giorni di prova come forma di retribuzione separata da quella dei giorni di recita e che rimetta sul piatto la trattativa per i diritti di sfruttamento dell’immagine e di riproduzione audiovisiva, diritti che da anni cediamo interamente ai Teatri. Inoltre è fondamentale rammentare che la filiera dello spettacolo crea occupazione ben oltre le porte del teatro, e che non supportare un settore come quello culturale, che pure nella situazione odierna riesce a generare nella sua globalità il 6,1 % del PIL, in un Paese che trasuda cultura a ogni angolo è una follia.
Temo però che certa politica faccia fatica a comprendere non dico la valenza sociale della cultura, sarebbe chiedere troppo, ma neanche il fatto che le potenzialità imprenditoriali, peraltro ampiamente dimostrate, del settore possono essere il vero motore della rinascita del Paese.
Come sta vivendo questo periodo, da artista ma non solo?
Sono figlio unico, sono abituato fin da piccolo a tenermi compagnia. Mi manca il mio lavoro, questo sì, perché un mestiere come questo è parte integrante di te, e quindi senza il teatro ti senti monco.
Il mondo dell'arte si è mobilitato in vari modi, esprimendo grandi preoccupazioni, cercando di sfruttare in ogni modo i mezzi tecnologici e i social, a volte cercando di trasferire la fruizione on line con streaming in diretta o di registrazioni, a volte, come in questo caso, sperimentando strade nuove. Cosa ne pensi? Cosa resterà insostituibile e irrinunciabile e quali potranno essere nuove esperienze utili?
Come ho detto sopra, in tempi d’emergenza tutto è lecito. Mi corre però l’obbligo di sottolineare che se non fossimo stati praticamente costretti a cedere i nostri diritti di riproduzione audiovisiva, molti di noi in questo periodo avrebbero dormito sonni più tranquilli grazie alle royalties derivate dagli streaming e dalle trasmissioni sulle reti televisive. Avremmo anche inciso in maniera meno significativa sulle forme di supporto immaginate dallo Stato. Insomma questo è un periodo in cui tutta la matassa di nodi che si è accumulata negli ultimi anni sta forzatamente venendo al pettine: sarebbe irresponsabile non tenerne conto per immaginare un futuro senza nodi da sciogliere. Quello che è insostituibile è lo spettacolo dal vivo e la sua funzione sociale : nessuno di noi professionisti di questa forma di spettacolo nato per starsene costretto dentro una scatoletta, e ridurre il pubblico a starsene dietro uno schermo col mouse in mano significherebbe, alle lunghe, lobotomizzarlo. A meno che non sia proprio questo il piano.
Cantante, regista, attore, autore... Alfonso Antoniozzi è uno e molteplice. Vogliamo parlare di qualche progetto e prospettiva per il futuro? Anche come buon auspicio.
Mi fai sentire come un personaggio di Pirandello! Fortunatamente tutti gli impegni saltati in questo periodo sono stati riprogrammati, come le regie di Bolena a Genova e Devereux a Venezia. Altri sono in corso di definizione perchè essendo programmati in autunno si spera ancora in una riapertura. Dal punto di vista della programmazione bisogna tener conto che anche i teatri son stati presi in contropiede e quindi non è semplice nemmeno per loro immaginare, allo stato dei fatti, un calendario definitivo. Ci sono molte cose in aria, c’è molta voglia di tornare ad aprire le porte e tornare a far spettacolo. Sono convinto che succederà presto, ma anche che succederà anche prima se sarà il pubblico a far comprendere alle Istituzioni in maniera forte e chiara la propria voglia di tornare a incontrarsi nel foyer, a riempire le sale, a nutrire l’anima e la mente con tutto quello che gli artisti di questo Paese sono pronti a continuare a regalare.